Fenomenologia e percezione: c’è quel che c’è.
Nell’approccio fenomenologico della Gestalt è centrale il tema dell’esperienza vissuta che avviene nella dimensione del divenire.
La comprensione del senso che le cose mostrano, qui ed ora, non si porta oltre l’esperienza. Le cose appaiono per così dire in carne ed ossa, cioè si lasciano vedere, si mostrano, sono evidenti, si danno originalmente nell’intuizione.
Il nostro prossimo si mostra nei limiti delle sue manifestazioni fisiche, ma la sua vita psichica, il suo mondo interno non sono immediatamente evidenti.
Seguendo questa linea di pensiero è evidente ciò che attualmente siamo in grado di percepire. Gli stati emotivi hanno una meccanica propria e alquanto complessa. Culturalmente siamo portati ad isolarli dal flusso dell’esperienza cioè li reifichiamo, li rendiamo cose.
Ma il nostro cervello non separa i momenti dell’esperienza in singoli eventi! Quando osserviamo un quadro, ad esempio, non lo scomponiamo in punti, linee e curve, ma ne percepiamo l’insieme. Se non siamo dei critici che analizzano opere d’arte e portiamo la consapevolezza sulla nostra esperienza, sentiamo qualcosa, viviamo qualcosa di fronte a questo quadro. Questo è il senso della domanda: che effetto ti fa? Portare l’attenzione sull’esperienza presente. C’è quel che c’è.
Consapevolezza emotiva: che cosa senti?
L’espressione delle emozioni è visibile su un volto e denotata da posture caratteristiche (vedi articolo sulle emozioni). Qui ed ora posso divenirne consapevole facendo domande e formulando ipotesi per capire da dove vengono, in che contesto sono nate, qual è la meta a cui tendono. Questo è il senso della domanda: che cosa senti? Ristabilire il flusso interrotto dell’esperienza, perchè un’emozione lo blocca.
“Imparando a focalizzare la consapevolezza e quindi a scoprire che cosa è, piuttosto che cosa dovrebbe essere, o cosa potrebbe essere stato, o l’ideale di cosa è permesso essere, il paziente impara ad avere fiducia in se stesso.”
James S. Simkin
L’immaginazione attiva
“Se ci concentriamo su un’immagine interiore e badiamo a non interrompere il naturale scorrere degli eventi, il nostro inconscio produrrà una serie di immagini che forniranno una storia completa”
C.G. Jung
La carenza di immaginazione nella nostra cultura digitalizzata porta ad un’insoddisfazione cronica che altera il senso di quello che ci succede intorno. É il caso, per esempio, di quelle persone che soffrono, perchè “vivono sempre nella loro testa”.
L’immaginazione non è una fantasia illusoria, è una facoltà umana innata, che può diventare un dispositivo culturale che ci consente di domare i cavalli selvaggi (vedi articolo precedente sullo stesso argomento).
Ti capita di pensare: in questa situazione non ho scelta? A volte può essere realmente così, ma la maggior parte delle volte la tua attenzione è irretita da quello che in Gestalt chiamiamo unfinished business(situazioni inconcluse).
Effetto Zeigarnik: quando il cerchio non si chiude
Questa sperimentatrice ha messo in evidenza una tendenza a ricordare più facilmente un compito interrotto o lasciato incompiuto, rispetto a un compito portato a termine. Questo effetto è strettamente legato alla personalità del soggetto: la mente umana ha più facilità a continuare un’azione già cominciata, piuttosto che dover affrontare un compito partendo da zero. Infatti, quando si incomincia un’azione si crea una motivazione che rimane insoddisfatta se l’attività viene interrotta.
L’applicazione di questo effetto in narrativa è definito cliffhanger (colpo di scena): nelle serie a puntate l’episodio finisce, lasciando incompiuta la trama al fine di spronare lo spettatore a seguire l’episodio successivo.
Se il cerchio non si chiude facciamo fatica a cominciare cose nuove.
Giocare
Mettersi in gioco è rischiare per vincere la passività, mettere in discussione la propria sicurezza, la padronanza di se stessi. Giocare è un esercizio con se stessi che ha lo scopo di insegnare a perdere una parte di sè per acquisire abilità nuove.
Nella trascrizione della seduta che segue presento come lavoro con questi tre elementi:
- Stare nel momento presente
- Immaginare
- Chiudere le Gestalten aperte.
Seduta 2
L: Ieri sera sono andata ad una cena con altri colleghi di lavoro e con molti non ci conosciamo o ci conosciamo solo di vista. Un signore di fianco a me…
T: Non raccontare metti in scena la situazione.
L: Ma anche tu sei ingegnere?
l: No io non sono ingegnere.
L: Mi sono girata dall’altra parte e ho cambiato discorso perchè mi sono vergognata. Perchè là sono tutti ingegneri o laureati…
T: Aspetta hai provato vergogna. E che cosa vuoi?
L: Vorrei non pensarci più a questa cosa, cioè non sentirmi più inferiore.
T: Vuoi fare qualcosa per non sentirti più inferiore?
L: …Per accettarla questa cosa e quindi non vergognarmi più. Perchè mi devo vergognare se non mi sono laureata?
T: Di che cosa hai vergogna se non ti sei laureata?
L: Di trovarmi in mezzo alla gente… Ho vergogna, ho paura che mi chiedano: tu in che cosa sei laureata? che cosa fai nella vita? Mi sento fuori luogo ecco, inadeguata, non ci dovrei stare.
T: Ti hanno assunto, ti stanno pagando, il lavoro lo fai. Che effetto ti fa quello che ti dico?
L: Insoddisfazione
T: Allora il problema si sposta e diventa che cosa vuoi fare per essere più soddisfatta di te.
(T cerca di formulare in modo operativo un progetto terapeutico che possa prendere le mosse dall’evidenza: L ora ha un lavoro. La vergogna, il senso d’inadeguatezza, l’insoddisfazione fanno parte del rapporto con se stessa e più precisamente dell’immagine svalutata che L ha di sè).
L: (Sbuffa…) Che cosa vorrei fare?
T: Sì! Che cosa vuoi fare. Di cosa hai bisogno per cambiare questa situazione che ti fa provare vergogna e sentire insoddisfatta? Se ti sperimenti in una situazione concreta puoi cambiare qui ed ora…
(T spinge L a prendere contatto con il desiderio che non esprime apertamente)
L: Ma il fatto è che quello che voglio non lo posso avere!
T: Ah siiii? Proviamo. Che cosa vuoi?
L: Io voglio… che so…, anche avere un lavoro normale che mi fa dire: io faccio questo, io sono qualunque cosa, pure una salumiera per esempio.
T: Tu stai già facendo qualcosa!
L: Io non la vedo così.
T: Tu stai lavorando, sei Lucia, questo è il pianeta terra… seguiamo un po’ la logica.
L: Io invece mi sento come se stessi facendo qualcosa che alla fine non è niente e come se quel niente che sto facendo non me lo sono nemmeno meritato.
T: e quindi che cosa fai? Che cosa puoi fare per sentirti all’altezza della situazione? Che cosa nel dialogo di prima non ti sei permessa di rispondere all’ingegnere? Fallo non me lo dire.
L: Che cosa avrei voluto rispondergli nei miei sogni?
(L accetta la sfida e entra nella una dimensione del dialogo)
T: Proprio così!
L: Anche tu sei ingegnere come lui?
l: No io sono insegnante…
T: E lui che cosa risponde?
l: Ah sei insegnante, cosa insegni?
L: Sono insegnante in una scuola elementare, non sono precaria, sono di ruolo e sono contenta di quello che faccio.
l: É da molto tempo che lavori?
L: Si faccio questo lavoro da dieci anni.
L: Ecco io così sarei stata felicissima.
T: Sei stata contenta di cosa?
L: Sono stata contenta di poter rispondere intanto che ero qualcosa, un’insegnante quindi che dietro questa cosa c’era un ciclo di studi, l’impegno di fare dei corsi, di aver fatto la gavetta, di aver accumulato esperienza. Contenta perchè allora era giustificata la mia presenza là al lavoro rispetto agli altri. Adesso mi sembra che non è giustificato, lì ci sono laureati che non trovano lavoro e vanno a fare questo, hanno avuto quest’occasione…Io invece mi sento come se avessi preso il posto a qualcuno che se lo meritava di più.
(Questo è il punto. Secondo una logica lineare basterebbe lavorare e accontentarsi dei frutti del proprio lavoro. Ma evidentemente così i conti non tornano. Secondo T, L desidera apprezzamento per una fatica che non ha fatto, desiderio che è destinato a rimanere frustrato.)
T: Licia…Che soddisfazione ti ha dato raccontare, inscenare questa finzione?
L: La soddisfazione di credere che potesse essere vero.
(T ha un’ipotesi sul comportamento di L: L vuole competere, ma poi si sente in colpa se ottiene un successo immeritato sul suo rivale per questo si tiene preventivamente fuori dalla competizione )
T: Quello che ho visto è che non hai incassato come fai di solito ma hai risposto, cioè hai agito responsabilmente. Che effetto ti fa quello che ti dico?
(T evidenzia le risorse. Agire responsabilmente vuol dire tenere conto che le azioni non sono prive di conseguenze. La situazione adesso si presenta in una luce diversa)
L: Mmh. Non c’avevo pensato. Mi fa piacere
T: Quindi che cosa puoi fare la prossima volta che ti senti inferiore?
L: Devo raccontare una palla?
T: Se ti ha dato piacere questo escamotage, ti ha aiutato a sopravvivere in quel momento…
(la risposta di L. non è valida in senso assoluto, assume valore se è congrua al suo sistema di valori)
L: Adesso però la palla l’ho raccontata a te.
T: Hai messo qualcosa in scena in mia presenza.
L: In quella circostanza io non penso che avrei saputo reggere. Le palle devono essere credibili, ci deve essere una conoscenza dietro.
T: E come si può fare per renderle più credibili?
L: posso cambiare e dire che faccio la salumiera. E’ una cosa che conosco…
(L apre davanti a sé una strada percorribile più vicina all’immagine che ha di sé, meno dispendiosa dal punto di vista energetico, in cui si sente più comoda perchè non deve affidarsi ad un ruolo da recitare lontano dall’immagine che ha di sè.)
T: la vuoi rifare dicendo che sei una salumiera?
L: Anche tu sei ingegnere come Gianluca?
l: No io non sono ingegnere. Io lavoro come salumiera in un supermercato.
T: Che effetto ti fa?
L: Mi piace. Mi sento a mio agio. Il fatto di avere un ruolo nel mondo mi fa piacere. Invece io così mi sento un’ombra, non sono ne’ carne ne’ pesce. Cosa fai? Cosa sei? Niente, ho imparato un po’ di questo, un po’ di quello, ma bene niente. Non sono niente
T: Il punto è secondo me: Licia fa abbastanza per ottenere quello che vuole? Tenta di convincere Licia a ottenerlo da se stessa!
(Inizia lo scambio con se stessa che prende le mosse dal piacere dato dalla nuova consapevolezza di avere un ruolo nel mondo e meritarselo al di là del giudizio che ne possano dare gli altri. L’insoddisfazione iniziale si sta dipanando, Licia assume un espressione più concentrata)
L: Se il problema è che non ti senti niente… lo vedi quanta soddisfazione ti può dare riuscire a raggiungere obiettivi. Ci vuole soltanto un po’ d’impegno.
T: Digli qualcosa di concreto. Che cosa vuoi da lei?
L: Cerca un lavoro, buttati a fare anche qualcosa che non conosci.
l: Io però non ce l’ho il coraggio di buttarmi. Non concepisco niente fuori dal ristretto cerchio di cose che so fare. Ci potrei provare ma poi arriva il momento di fare il colloquio e mi caco sotto. Non so cosa inventarmi e per questo non mi lancio per evitare di avere paura.
L: Però se non provi non lo potrai mai sapere. Magari ti può capitare di aver paura prima di andare al colloquio e poi va bene. E già questa è una soddisfazione, già sei andata oltre. Quindi devi provare prima di dire non è per me. Come tua figlia che ti dice no questa cosa non l’assaggio perchè non mi piace, e tu le dici: ma se non l’assaggi come fai a dire che non ti piace? Prima la devi assaggiare… e tu fai la stessa cosa.
l: É vero però devo superare quel momento che mi fa dire: no questa cosa non è per me. Se mi concentro su quello che non so fare mi blocco. L’unica cosa che potrei fare è chiudere gli occhi e provare così.
L: Potrebbe essere una soluzione il fatto di non pensarci e mandare curriculum. Forse è la cosa che fanno tutti. Intanto provi e può uscire qualcosa di buono.
(Nel dialogo con se stessa L rassicura la sua parte impaurita che accetta di mettersi in gioco. Non ha più bisogno del sostegno e degli interventi facilitatori di T. Ottimo risultato. É comparsa un’altra emozione dallo sfondo: la paura. Nella dinamica delle emozioni c’è un fattore che le scatena. Per la paura è un pericolo…)
T: ho la fantasia che lei faccia come quegli animali che fanno finta di essere morti per sfuggire al predatore. Che pericolo corre Licia se manda il curriculum?
(T cerca di consolidare la struttura portante dell’edificio facendo il processo alle intenzioni. La rassicurazione è momentaneamente efficacie, dove poi L prenderà le energie per agire?)
L: Non so.
T: Sei disposta a mandare i curricula? L’hai già fatto in passato, ti ricorda qualcosa?
L: Sì. Mi è capitato di fare proprio questa cosa un giorno che ero arrabbiata: sono andata al computer e ho mandato curriculum a chiunque anche per lavori che non avevo mai preso in considerazione. Non mi ha chiamato nessuno. Ma alla fine delle due ore ero proprio soddisfatta, stavo proprio bene. Ero contenta perchè era come se mi fossi liberata dalla gabbia, da tutti questi limiti che m’impongo. Però poi finisce là. Passa la rabbia…
(L svela che passata la rabbia del momento la strategia perde forza, quindi non sa come trarre vantaggio dalla rabbia)
T: Hai detto qualcosa di fondamentale. La rabbia serve a conquistare o a difendere un territorio, in questo caso è il lavoro. Questa rabbia è alimentata dalla paura o dal dolore. Che cosa è più vicino a quello che sentivi?
L: (prontamente). Il dolore
T: per che cosa?
L: Insoddisfazione.
T: Come quando si ha fame e non si può mangiare?
(T verifica con una domanda. Le emozioni sono un pilastro portante dell’edificio: se non si riconoscono è come procedere a tentoni nel mondo. L’ipotesi che vuole sottoporre a verifica è se il dolore provenga da un bisogno frustrato)
L: Sì. Come se volessi urlare e non ti esce la voce, come se volessi camminare e hai le gambe paralizzate.
(La risposta di L è incongruente: queste sono reazioni che si accompagnano alla paura! T decide di costruire una situazione sperimentale per verificare nel qui ed ora se L sia disponibile ad esprimere la rabbia per perseguire i suoi scopi. L’ipotesi che T vuole sottoporre a verifica è: se L si arrabbia, l’altra L si difenderà senza rifugiarsi nell’ombra, sottraendo energie per l’azione?)
T: Come accade in certi sogni. E secondo te arrabiarti con lei può servire ? o urlare…
L: Magari sì. Magari la faccio arrabbiare come ero arrabbiata io quel giorno…La potrei provocare…Ci devo andare pesante?
T: Pesantissimo!
L: ( con voce tremante) Sei proprio un fallimento.
T: Un po’ di energia!
L: Non mi viene
T: Sì perchè lo fai di rado. Rabbia calda, dramma.
L: Sei proprio una fallita. Non ti svegli mai, non t’innervosisci mai, non prendi e dici mo’ basta, cioè possibile che riesci a sopportare questa situazione senza esplodere? Come fai a sopportare, come ti fai a sopportare. Come fai a guardarti allo specchio e sentirti soddisfatta. Non arriva mai quel giorno che dici basta, mo’ devo cambiare, devo fare qualcosa per migliorare?
T: E lei cosa risponde?
L: Non lo so.
(L’altra L non ha voce, non sostiene il confronto. Allora T propone una modalità meno giudicante di espressione della rabbia per provare se questa sia una strada percorribile.)
T: Ti propongo di farlo senza parole. Come fanno i bambini (urlando): ta ratatta taratattattà, (gesticolando) bà bà babbà. Tenta di contattare l’emozione della rabbia, sennò ridiventa un rimprovero freddo che lei già conosce e poi ricomincia a nascondersi nell’ombra, a fare la morta e non agisce.
L: (con scarsa partecipazione) Bla, bla, bla. Non mi viene tanto
(Anche questa strada è troppo accidentata. Nell’esperimento l’ipotesi non è stata verificata: L con la rabbia non riesce a stanare l’altra L. L’esperienza ha avuto l’effetto di esaurire la rabbia “meccanicamente” e ha lasciato spazio ad una nuova emozione. T riparte dal qui ed ora)
T: E che cosa senti?
L: Imbarazzo.
T: T’imbarazza arrabbiarti con te stessa?
L: Si. É solo una provocazione…
(L comprende che, nella sua struttura interna, svuotata la rabbia di energia rimane “solo una provocazione”)
T: OK. Qual’è un altro modo di provocare? Anche nel gioco si provoca…
(T propone l’idea che il gioco sia una espressione rituale dell’aggressività e come tale possa assolvere la funzione di coinvolgere l’altro all’interno di un sistema protettivo di regole. )
L: La dovrei spingere?
T: Spingere fisicamente intendi? Per giocare?
L: Non per giocare, per menarla proprio.
T: T’imbarazza aggredirla verbalmente, un’aggressione fisica è ancora peggio. Giocare, sfottere, punzecchiare…divertirsi insieme insomma.
L: Ok. Ho capito: (con tono duro) ma sei proprio addormentata, perchè non ti svegli?
(L è aggrappata al suo comportamento disfunzionale. T stremato dai precedenti tentativi infruttuosi attuati con metodo maieutico, decide di mettere in scena un epilogo provocatorio e se son rose fioriranno!)
T: Giocare, punzecchiare, sfottere… Aspetta adesso ci provo io:
T: Ti piace fare la morta?
t: (timidamente, a capo chino) sì
T: come ci si sente a stare stesi dentro la terra, a braccia conserte? Dai, andiamo a fare i morti insieme in centro?
t: (ridendo imbarazzato) sì
T: Incontriamo qualcuno ugualmente morto. Sai ai vivi piacciono quelli allegri, vitali, che s’imbarazzano, che fanno le cose. Non quelli che si chiudono in una cassa da morto per l’imbarazzo e aspettano che arrivi il sole per andare a dormire. Ti ricorda qualcosa? I vampiri che succhiano il sangue. Stanno lì tutto il giorno e mentre gli altri lavorano e sono operosi, rimangono comodamente nella cassa da morto. Aspettano la notte, si trasformano in pipistrelli e vanno nella casa di un povero cristo che ha faticato tutta la giornata. E ahum. Ti sembra giusto?
t: (annuisce in silenzio, evidentemente compiaciuto)
T: Che effetto ti fa?
L: Sono divertita…ma se penso che lo stai dicendo a me…
T: Non lo sto dicendo a te. Sto facendo una fatica bestiale per separarvi, per creare un po’ di distanza perchè lei possa muoversi. Questo è un trucco per farti fantasticare un pochino. Fai una cosa per me, ripeti quello che ho fatto io con lo stesso tono, giocando, improvvisando.
L: Non vado forte in queste cose…
T: Ripeti pedissequamente quello che ho fatto io. Se non vai forte devi solo fare il compitino preciso come l’ho fatto io.
L: Non mi viene da essere ironica.
T: fallo a modo tuo
L: Mi viene da rimproverarla. Come fai a giocare con una che vorresti menare?
T: Se sei giudicante e la rimproveri non ottieni niente. É proprio questo il punto… trovare una via d’uscita sennò sai quanti cadaveri ci dovrebbero essere sparsi per il mondo. Sono uscito stamattina e ho visto il mio padrone di casa, già lo volevo ammazzare. Mi sono girato c’era una ragazza che era brutta e non meritava di stare al mondo. Un altro cadavere.
(T come ultima risorsa punta il dito ironicamente sul vantaggio che può dare abbandonare il comportamento disfunzionale “essere ostili con se stessi” almeno in termini di dispendio di vite umane.)
L: Ci andiamo a seppellire? Così vai a dormire nel tuo loculo al cimitero. Tu là ti trovi bene in mezzo ai morti. Dai rispondimi o ti prendo a schiaffi.(ridendo) Allora quale cimitero visitiamo?
Andiamone a visitare uno dove ci sono personaggi famosi, si fa qualcosa di divertente. Meglio non essere troppo avventurosi andiamo al cimiterino così stiamo tranquilli, troppa vita non fa bene.
(L apprezza il non sense gotico ispirato dalla scena di T e decide di farlo suo. É visibilmente divertita. Ha preso contatto con la sua parte mortifera trasformando la rabbia fredda, ostile e compatta in un insieme più variegato.)
T: e cosa senti?
L: rabbia.
T: Più o meno di prima.
L: Di quando la rimproveravo?
T: Sì
L: Di Più
T: mh. La rabbia si è riscaldata un po’?
L: Sì
T: Bene e quindi che ti proponi di fare con lei?
L: Forse di cercare di sfotterla più spesso per vedere le sue reazioni?
(T considera accettabile il punto d’arrivo sebbene L abbia solo lambito la tematica sottostante la rabbia: il dolore. Per ora sembra essersi rappacificata con una parte di lei difficile da accettare. Ha riconosciuto il valore del dialogo)
T: Ti convince?
L: Si può provare.
T: Ok. Finiamo qua.