La maschera funeraria di Gogol
(o come ha suggerito un fortunato lettore Go-goal)
Questo è un diario tenuto da un mio paziente recentemente. Il riferimento ai fatti di cronaca è palese, non è per niente scontata, invece, la sua prosa lucida e irriverente, come le sue panchine stanno a dimostrare. Mi è stato inviato (come si dice in gergo tecnico, come un SMS, una mail o un pacco) da un “collega” psichiatra per un supporto psicologico. Un supporto…come se la psicoterapia fosse un oggetto tecnologico. Un oggetto di studio sicuramente interessante, molto meno quando l’Accademia tenta di delinearne i contorni con studi quantitativi che servono solo a validare verità obsolete.
Il desiderio di lasciare un segno
Il dr. Stefano Perilloso è un poeta visivo e a tratti visionario, un fotografo dell’anima dallo sguardo lucido e disincantato. Come passatempo ha scelto di esercitare la professione di psicoterapeuta all’Ospedale Civile di Brescia e, privatamente, come libero professionista.
Ha collaborato in progetti grafici sul covid e… (dettaglia meglio tu questa parte).
Ci lega un’amicizia lunga quasi trent’anni. A vent’anni, adesso ne abbiamo quasi cinquanta, la poesia è istintiva, vissuta non fermata sulla carta una volta per tutte. A cinquanta i bisogni si evolvono e provi il desiderio di lasciare un segno.
Da questa esigenza è nata l’esperienza artistica di proficua collaborazione umana, prima di tutto, che vedete qui in questo post e che ci porterà lontano, se la nostra intenzione sarà salda e tenace, come l’esistenza richiede ai naviganti come noi.
La mia psicoterapia
La mia psicoterapia si occupa anche di futuro, di un futuro necessario quando si naviga a vista in un mare oscuro come la notte, in tempi di crisi. E il nostro buio è il periodo del giorno colorato da passioni tristi, è il presente con cui fare i conti e venire a patti. O la trasformazione o il compromesso!
C’è poco da andare lontani se non si sceglie una direzione.
Tutti i cammini hanno un tempo per la stasi, la noia, lo sconcerto. Uscirne anzitempo, frettolosamente, non si addice alla radicalità dei cambiamenti personali, come di quelli epocali, del resto.
Certe visioni traghettano le anime, spesso solitarie, inascoltate, a compiere balzi in avanti.
L’epistemologia storica ha acquisito quasi cinquant’anni fa la consapevolezza che la scienza non procede linearmente, ma per rotture, per rivoluzioni copernicane.
(Ora che ne è di quella consapevolezza?)
Queste anime, che in altri tempi si sarebbero definite illuminate, ora la psicopatologia le incastra nella prigione della psicosi. Vengono messe nel calderone del dissenso, dove ribolle uno stufato di capro espiatorio.
Molti psicoterapeuti, non tutti, sanno e fanno esperienza tutti i giorni, di come il conflitto debba sostare in quel calderone. Così il cibo cucinato e poi digerito, diventa energia che dalle viscere va nel metabolismo, alle ossa, ai muscoli, al cervello. Spegnere il fuoco, smorzare la fiamma vuol dire togliere energie disponibili al metabolismo sociale, ad un pensiero collettivo. Come specie siamo diventati più simili ad un formicaio che ad un gruppo di primati di vaste proporzioni.
C’è una leggenda a cui fa riferimento secondo me l’autore, quando battezza il protagonista: Gogol.
Nei miei camminamenti con Gurdjieff per le vaste pianure del Caucaso, me la raccontò lui stesso.
“Lei sa perché la statua di Gogol in piazza Arbat, ha un naso eccessivamente lungo?” –mi chiese sprezzante.
E raccontò che una volta, esaminando il profilo della statua, aveva avvertito che “il flusso armonioso delle linee del profilo”, per usare la sua espressione, si interrompeva sulla punta del naso.
Volendo verificare la giustezza di quell’impressione, aveva deciso di cercare la maschera mortuaria di Gogol, e, dopo lunghe indagini, l’aveva trovata presso un privato; l’aveva dunque presa in esame prestando un’attenzione particolare al naso. L’esame aveva rivelato molto chiaramente che, quando era stato fatto il calco, si era formata una bolla d’aria esattamente là dove si interrompeva “il flusso armonioso del profilo”. La persona incaricata di prendere il calco aveva probabilmente colmato i vuoti in maniera maldestra, col risultato di modificare la forma del naso dello scrittore. E l’autore del monumento, non avendo avuto dubbi sull’esattezza della maschera, aveva gratificato Gogol di un naso non suo.
Benvenuti nel regno della metafora, dove germinano le storie di tutti. Buona lettura.
Cronachette
Hanno vietato le manifestazioni…Oggi ho fatto il primo tampone per un nuovo lavoro. Sono entrato nella farmacia comunale in piazza Maggiore a Bologna, luogo storico deturpato dai condotti di areazione e dai cavi dell’illuminazione. Le belle arti non hanno detto niente, strano. Pareva un supermercato di quelli lussuosi: non c’era una farmacista che non fosse sexy. Gli scaffali pieni di luccicanti cosmetici, cibi sani e ipernutrienti. A proposito che fine ha fatto il bastone caduceo?
Un vecchietto ha speso 50 euro di stronzate.
La ragazza lo trattava con gentilezza e gli dava del tu:
– Questo lo prendi perché ti tira un po’su, quest’altro per dormire, quest’altro ancora per disinfettarti la gola.
E il vecchietto:
-Da quando ho fatto il vaccino sto male! Un mio amico dalla Russia mi aveva portato tipo delle aspirine, voi non le avete?
La ragazza con delicata confidenza:
– Noooo ti ho dato tutto quello di cui hai bisogno, stai tranquillo…-
Aspettando la terza dose mi chiedo come mai gli anarchici non abbiano deciso l’ occupazione del suolo pubblico di queste farmacie.
Vuoi vedere che il bastone per una volta finisce nel posto giusto?! E le spire dei serpenti non avvilupperano più le gole sbagliate.
Memorie dal presente
Oggi terzo tampone un po’ perché faccio il furbo, un po’ perché non c’è controllo. Stessa farmacia. Stesso delirio. La biologa era solo più sgarbata e impersonale. Non mi ha salutato né guardato in faccia, tremendamente professionale. Mi hanno chiesto 3 volte il codice fiscale e 3 volte il numero di telefono che è diventato il numero di matricola di un soldato e sono romantico a definirlo così.
Sembrava che ci fossero dei posti di blocco come in Palestina e ad ogni posto di blocco una guardia ottusa che però conosceva bene le regole, mi chiedeva il numero di matricola e il grado. Tra il “Processo di Kafka” e “Non ci resta che piangere”, per cercare, come al solito, la nota umoristica. Ma la brutalità della Palestina ha poco senso dell’umorismo. Quello che ho notato poi aggiunge un tocco di genio alla vicenda: quindi un delirio, ma geniale.
L’avete visto ” Brasil” di Peter Gilliam, liberamente ispirato al famigerato “1984” di Orwell? L’apparato burocratico dell’edificio era munito di tubi trasparenti che mettevano in comunicazione gli uffici dei vari ministeri. I colletti bianchi, freneticamente, infilavano dei bussolotti in questi tubi che con un meccanismo ad aria compressa giungevano a destinazione, risucchiati.
Non ci crederete e non ci crederà nemmeno il mio psichiatra quando eccitato glielo racconterò. C’era anche lì! Non trasportava informazioni utili solo a nutrire il sistema, ma farmaci: indispensabili, salvavita, callifughi, antiretrovirali, antipiretici, inebrianti, erotici…insomma veri surrogati di quella vita obsoleta che abbiamo salutato. Ah! Un bel delirio ci voleva per salvare il mondo! Dopo la modesta invenzione delle religioni monoteiste, il nostro amato VIRUS ha dato una ragione d’esistenza nuova e corroborante. Finalmente la gente ha paura di qualcosa, di una cosina piccola, ma meglio di niente. Resta da stabilire ancora da che parte del delirio stare. Abbandonate le barricate ideologiche, obsolete anche quelle, non ci resta che scegliere tra un neurolettico e una vasta gamma di deliri: di persecuzione, di onnipotenza, erotomaniaci (so’ fissato lo so!), di veneficio, di riferimento, ecc.
I pazzi normali si sono estinti. Venitemi a portare le sigarette, per piacere. Vi chiederò di abbassarmi la mascherina e di accendere.
Buon lockdown interiore a tutti.
Storia di ieri
Come quelli più arguti di voi avranno certamente capito, non mi voglio fare il vaccino. Un ieri imprecisato, sono andato in un ristorantino con la mia bella e ho sfoggiato il mio green-pass, ribattezzato Peace par tout da un mio caro amico. Insomma era tutto perfetto, come nei film girati in digitale! L’atmosfera legnosa del locale, calda al punto giusto, le chiacchiere in intimità e la cameriera col suo marchingegno che mi accoglieva nel consesso degli umani quasi-vaccinati. Non mi sentivo un fuorilegge, un latitante della sanità. Stavo comodo!
Vi confido che quando non ci sono accidenti nelle storie, non so che farci. Un’avventura deve superare delle avversità, sennò ha poco sapore per me.
Ecco, mi piglia un senso di vuoto, mi rilasso come in uno stato meditativo e inizio a sentirmi un po’ stanco. Poi mi vengono voglie strane e inconfessabili come i peccati.
-Dopo cena voglio andare a teatro.-
– Ma che sei pazzo! Vedi che appena soddisfatto un desiderio se ne attacca subito un altro, e poi che fai?-
-Mi faccio il vaccino…si giuro domani prenoto…3 dosi in un giorno non mi ammazzeranno… hanno detto che è buono… non mi farà male.-
Però quando ritorno lucido o ricomincio a delirare (questo non l’ha capito nemmeno il mio psichiatra), mi spuntano certe domande scomode.
Possibile che dall’inizio di sto casino anche se non mi sono protetto per nulla, o meglio, mi sono protetto solo per fare contenti gli altri, il VIRUS non mi ha degnato nemmeno di uno sguardo? E che è non sono un organismo biologico, io? Ma vedi che superbo questo qui!
I virologi dall’alto della loro scienza direbbero: CULO.
Si forse, ma questo nuovo paradigma non mi convince tanto.
Sarà ma recentemente ho preso una posizione netta: accetto di diventare una cavia, hanno detto che è per il bene dell’umanità e non ho saputo dire di no.
Allora il primo protocollo dell’era della dittatura sanitaria prevede questo: vengono a prendermi a casa, mi infilano un profilattico gigante e limaccioso, che mi coprirà dalla testa ai piedi e mi portano in un ospedale ultratecnologico. Ma, preciso, è una dittatura divertente come le barzellette di Berlusconi…state tranquilli.
Dovete immaginare un posto tra un casino (o’) di Las Vegas, Poggio Reale, e il Taj Mahal. Ce l’avete? Okay.
Le infermiere sono PIN UP (ovvio), un po’anche poliziotte come in certi video musicali dei Beastie Boys. Scollatura prominente, minigonna e al cinturone un siringone, le manette e una frusta. Quando arrivi applaudono tutti, ti accolgono come un dio. I sacerdoti hanno una tunica lunga e bianca, buttano petali in aria, e ballano al ritmo del goa. Entri ballando anche tu accanto al clone di James Brown che ti incoraggia e ti sospinge sul tappeto rosso.
-Solo per te! Only for you, Man!-
La scena è all’apice della goduria: -Chissà che mi aspetta dentro!?!-
Un’altra bella donna, una radiologa scalza e con i campanellini alle caviglie mi infila un trip in bocca e mi bacia.
Sono arrivato alla porta sì, sì. -Fatemi il vaccino, sarò il vostro schiavo per sempre devoto!-
Finalmente entro e… c’è freddo e buio.
Volete sapere una cosa, anzi due?
Il teatro me lo faccio da solo e lo psichiatra se ne deve andare affanculo!
L’eterno presente
L’amica dell’altra volta ha detto che mi vede un po’ strano.
Ho superato indenne anche i posti di blocco del super green pazz. È un gioco da ragazzi che alla lunga mi sta annoiando. È come un videogioco: ho superato tutti i livelli, ho conquistato tutto quello che potevo con armi potenti e scenari favolosi, ma ripetitivi. Non mi pongo più la domanda perché. Non rispondo quando mi chiedono perché non mi faccia il vaccino. Per me la verità è fin troppo ovvia, non la nascondo nemmeno a me stesso.
Tempo fa c’era una vignetta sul Vernacoliere che recitava così:” E la torre di Pisa? Oh se avesse ragione lei?”
Ecco! Oltre che strano (lei è perspicace), mi sento un po’storto. La verità la cerco con la testa obliqua, messa di lato in modo che deformi la prospettiva. Con la testa così e un po’ di esercizi riesci ad accogliere il punto di vista dell’altro. Non mi chiedete come lo faccia, è una cosa che ho imparato a fare tanto tempo fa, quando del mondo capivo veramente poco. Ho imparato ad osservare le prospettive dritte e lineari, sono gradevoli esteticamente, ordinate, ma, secondo me, si sovrappongono al brulicare della vita. Non ne colgono l’essenza. Del resto anche la mia capa storta non può abbracciare tutto quello che c’è, la mia prospettiva è limitata. Io mi diverto dentro questi limiti: a volte tento di forzarli, a volte mi acquieto e contemplo il mistero.
Ora vi dico una cosa che però il mio psichiatra non deve sapere perché quello si preoccupa, in fondo è una brava persona. In mezzo alla gente, quando corri dentro la quotidianità e il tempo ti insegue si formano dei corridori di energia che inconsapevolmente ho imparato ad usare. Sono luoghi protetti come le oasi marine. Altrimenti non si spiega perché io sia passato attraverso due lockdown continuando a vivere, lavorare, cercare come se nulla fosse. Attorno a me, quando giravo di notte in bicicletta, vedevo calcinacci e sentivo l’odore della polvere ma, come ho detto, non volevo farci caso.
Stava crollando qualcosa, un edificio…Boh! Non so.
E alle cose che crollano è inutile aggrapparsi, ti trascinano con sé.
Io mi lascio trasportare dalla corrente dei pensieri e alla fine mi perdo. Questi sono i corridoi di cui vi stavo parlando: quando ci entri sei una persona, quando esci, se riesci ad uscire, a volte non ti ricordi nemmeno di essere entrato. E ricominci daccapo…un altro corridoio, un breve senso di vuoto alla pancia e cammini come sui tapis roulant degli aeroporti.
Un corridoio che mi ha divertito parecchio? “Amore e libertà a braccetto”. Questo era particolare, aveva un’insegna luminosa all’ingresso, non tutti sono così invitanti: un cuore antropomorfizzato con le corna da diavoletto, un uovo bianco con le alucce.
Da lontano si sentiva l’odore dello zucchero filato e il rumore sordo delle fiamme sparate in aria. La musica un po’ stonata dell’organetto mi trascinava dentro. Faceva un caldo che ho abbandonato subito la giacca. Nani, ballerine su una gamba, mangiafuoco mi salutavano senza guardare. I barriti degli elefanti facevano eco ai colpi di frusta schioccati in aria.
Ladies & Gentlemen, il circo: una delle magie che fa diventare un forziere pieno di ghiaccio un illusione. Immerge gli spettatori nella finzione che meraviglia e fa dimenticare gli affanni.
Mi sono fermato a parlare con un pagliaccio, persona seria e dignitosa. Stava fumando una sigaretta, attento a non rovinare il cerone.
-Da dietro la maschera si vedono un sacco di cose.-
Come lo ha detto mi ha colpito, aveva uno sguardo sinistro che si accoppiava al mio, obliquo. E abbiamo fatto due chiacchiere sbilenche. Non sapeva come ci era finito lì, aveva inseguito una donna senza mai raggiungerla. Poi s’era fermato perché aveva bisogno di lavorare e quel mondo strampalato, allegro e triste, era diventato la sua famiglia. Una famiglia normale dove ci si aiuta e si fanno i dispetti quando ci si annoia. A volte pensi che vorresti stare con loro per sempre, altre vuoi scappare e farti solo i fatti tuoi.
Gli ho chiesto:- Com’è togliersi il trucco quando cala il sipario?-
E lui, assorto nella nuvola di fumo:- Normale. Sei stanco, assonnato ma per dormire sogni tranquilli lo devi fare come qualsiasi disciplina. Ti ho deluso?-
Si era accorto che avevo un punto interrogativo sul naso e ha continuato.
– Facciamo tutti parte di uno spettacolo più grande.-
Poi mi ha salutato con l’occhiolino e io mi sono seduto su un tronco mozzo, guardando le stelle.
L’epilogo non c’è mai stato
Ho un presentimento: tutto questo un giorno potrebbe mancarmi. Ho un altro presentimento: che da come conduco questa faccenda, al termine dipende la mia felicità.
Oggi ero sereno e un po’ rincoglionito. Arrivo lì e la biologa, anche se mi ha fatto aspettare parecchio, poi mi ha dato del tu e a modo suo è stata gentile. Vado alla cassa e ho avvertito i primi segni di cedimento. Una bambina vecchia cent’anni parlava come se dentro la mascherina avesse infilato una bomboletta di elio. Tutto sommato è stata comprensiva. Ho sempre l’impressione che gli altri debbano comprendere il mio modo di essere problematico. Il ragazzo affianco era un po’ gobbo, rassicurava un altro cliente con le solite frasi fatte che avevano un effetto soporifero. Non su di me io ero già abbastanza rincoglionito. Accanto a lui una bella streghetta rossa coi suoi capelli arruffati, curati come le sue unghie rosse e affilate. Questa scena era disposta ad arco, ad un capo la bambina all’altro capo, passando per il gobbo e la streghetta, una struttura elicoidale che scompariva nel soffitto. Vedevo già dei folletti verdi e viola che strillavano di gioia ad ogni discesa. Ad un estremo della mia follia c’è questa scena, nell’altro ci sono le mie visioni macabre. Sapevo che dietro le mascherine, imputriditi dall’anidride carbonica, c’erano denti sconnessi da zombie, sanguinolenti o completamente marci. Non mi preoccupano più, effetto della terapia che sto seguendo.
Quello che ancora mi preoccupa è che sto diventando invisibile, ma so almeno da dove viene questa ennesima paranoia. Mi sto smaterializzando a causa dei miei viaggi interstellari. A volte entro in corridoi talmente sottili che rischio di rimanere maciullato, come in un tritacarne. È irresistibile quando sento quel risucchio, che parte dal diaframma e mi spara lì dentro. Però intuendo che questo corridoio era più sottile e vitale degli altri, ho resistito al risucchio e ho pagato prima di partire. Posata l’ultima moneta, ho accolto l’invito della forza magnetica e sono scomparso. Ma loro non se ne sono nemmeno accorti, perché il corpo era ancora lì, testimone della non vita di tutti i giorni. Questa forza è gentile, un po’ formale forse, ma con lei ho stretto un patto.
Sguscio dentro come un lumacone bavoso, ho appreso ad assumere questa forma perché l’attrito è tanto e rischi di strusciare contro gli atomi più duri, fino a procurarti abrasioni dolorosissime. Ricordatevene quando gli aerei saranno definitamente dismessi.
Il tempo rallenta e arriva vicino alla stasi, quando si ferma sai che sei arrivato.
Brughiera inglese in epoca vittoriana, classica nebbiolina sospesa a mezz’aria. Odore e sapore di metallo, verde diafano, uno specchio d’acqua al centro, cigni pigri, le anitre starnazzanti annunciano il mio arrivo.
Io piombo sul selciato a piè pari. Controllo che non ci sia nulla di rotto, che gli arti siano rimasti per il verso giusto. Ve lo dico perché una volta nelle catacombe cristiane di Napoli avevo un orecchio al posto del naso. Vi lascio immaginare che olezzo sentissi!
La panchina affianco a me si prendeva gioco dei miei Io abbuffati di speranze, fin da piccolo. In una impressionistica lontananza una macchia nera e allungata con una macchiolina bianca ai piedi, irrequieta. Circumnavigavano lo stagno, verso di me. Mi sono seduto sulla panchina bagnata e ho rollato una sigaretta. I vizi rimangono tali e quali anche a migliaia di chilometri da casa. Le figurine, ora più nitide, venivano verso di me, lentamente. A metà del percorso, sforzando un po’ lo sguardo, ho distinto una donna elegante nei vestiti d’epoca con un ombrellino di tulle e organza, come il vestito. Trotterellava al suo fianco un barboncino batuffoloso di quelli che odio tanto. Ogni boccata, un passo e la sigaretta sembrava non finisse mai, pochi centimetri diventavano chilometri. L’angoscia si era fatta strada a torcermi le budella. Quella stronza! Pochi attimi fa ero sereno, riflettevo sulla mia misurata felicità, ora le mani fra i capelli, il capo chino a reggere un’acuta sofferenza.
– Eccomi qua! Puntuale come sempre, mio caro…
Una donna in età da matrimonio, di profilo, dinanzi a me.
[Sti uozzappini interdimensionali non li sopporto più, sempre a distogliermi dai miei intenti.
– Come stai?
– E come devo stare!?! Come un giorno fa, come tre giorni fa: una merda.
– Ah…va bene allora non ti disturbo…
– L’hai già fatto e per piacere, pochi puntini sospensivi, lo sai che mi irritano!!!
Mi alzo, lavo i piatti, vado in bagno e una sigaretta.
-Ma due sigarette contemporaneamente non mi faranno male? –
-No caro, al massimo t’ammazzano.-
Stai calmo, Gogol!
Stai calmo e concentrati, immergiti di nuovo. Quando la materia ti chiama a sé, il corpo dice menzogne. Tranquillo, ne và della tua felicità, ricorda!]
Con quel barboncino disgustoso che ringhia e sbava, manco fosse un Cerbero infernale, faccio i conti dopo.
– Signora, non so cosa ci faccio qui…-
-Sempre a recitare questo consunto ruolo da distratto, capitato qua non si sa per quale fortuito caso, lo gnorri allampanato…
-Ehm, sì!- L’unica banalità che non dovevo dire, mi capita sempre così quando parlo con le belle donne. Tranquillo Gogol, tranquillo.
-Stai tranquillo, non ti mangio mica. Anzi è un piacere che ci sia anche tu qui, sto sempre sola. Lavoro tutto il giorno e passeggio eternamente intorno a questo stagno. Una noia…-
Tranquillo un corno, quando me lo dicono mi agito sempre e se mi agito vedo troppo. Ma questo è un invito civettuolo e allora questa angoscia?
– Ehm, si signora… capisco.-
Bravo! Un altro disastro: vuoi fare il gentleman vestito da scugnizzo nella vita? Deciditi!
– Avrei bisogno di un collaboratore onesto e riservato come te. Mi piaceresti più deciso, però…mmm quello può cambiare, nessun problema. E’ proprio quell’aria da ragazzino di strada che non riusciremo mai ad eliminare, ci sei troppo affezionato alle tue miserie da mortale, come a quei vestiti cenciosi. Se vuoi lavorare con me, ci vuole un bel restyling!
-Ehm, certo Signora…
Come certo, ma sei impazzito di nuovo?
Sì. E si sono premurati di trovare altisonanti definizioni per escludere il dubbio e i folli, in passato come oggi. In ultimo persone senza scrupoli hanno chiamato “no vax” il dissenso. Non è logico, non partecipo ad un mondo così perverso. Non mi assumo al posto degli altri la responsabilità della devastazione dell’Amazzonia dove vivono i miei antenati, dell’inquinamento delle loro ottuse ed insensibili macchine.
“No, no, no” dico come un bambino impotente, ritto sui piedi, disperato contro quel gigante di suo padre. Vado a vivere in Tanzania con i caribù, nudo nel fango a brucare l’erba. Mi vergogno persino di possedere una capanna. Rinnego l’appartenenza alla mia stirpe, alla mia storia di homo sapiens. Ma sapiente di cosa? Che siate maledetti!
– Vedo che stai riflettendo sulla mia proposta, in compenso sei molto sensibile. Non dovrò lavorare tanto per renderti una creatura servizievole ed egocentrica, avida e possessiva.-
La signora da quando aveva cominciato il suo sproloquio, era rimasta di profilo, con lo sguardo perso in lontananza, l’espressione apatica, la voce severa eppure melliflua. Il cagnaccio riposava ai suoi piedi. Stavo per diventare come lui? Un servo?
Non un servo, è così che si diventa uomini.
E io, in fondo, uomo non voglio diventare. Sì presero gioco di me e io ora mi prendo gioco di loro. Ma con questa signora non voglio scherzare.
-Mi chiamo Gogol. Viaggio nel tempo. Questo è il mio ultimo viaggio.-
– Lo so. Siamo seri…
-Ho lasciato le domande nella dimensione da cui provengo.-
-Fatto grave…
-Di gravità se ne parla altrove. Qui riesco ad osservare da una distanza siderale, ciò mi permette di sentirmi più vicino ai miei simili.-
-Ti ascolto, mio caro, prosegui…
– Cosa ci sia alla fine del tempo non mi interessa. Sapere è di una noia mortale quando cerchi qualcosa che non trovi. Lo spazio riesce ad accogliere le mie richieste che si dissolvono come una nuvola di fumo. Io chiedo e le cose rispondono.
-Arriva al dunque, figliolo, sono già abbastanza annoiata.
– I miei simili sono portatori della crisi. Hanno le loro vite, fanno le loro cose, m’invitano ad uscire anche quando voglio stare dentro.
– Fanno la loro vita. Mia sorella è un po’ capricciosa, talvolta indomabile, gioca con tutti, ma va a letto con pochi. Che vuoi ancora da lei?
-Una partitura nuova. Respirare aria pulita. Un caffè così lungo che mi tenga sveglio per sempre.
– Pretese fantasiose…e come pensi di ottenere questo poco che manca? Hai uno straccio di strategia?
-Non ne ho bisogno: tengo quello che serve e lascio andare il superfluo. Il piacere patisce un po’, ma c’ho fatto il callo.
-L’abitudine è la lontana parente più antipatica che abbia. Il riso la seppellisce e lei risuscita ogni volta. Vuole attenzioni, d’altronde è mortale come te.
-Signora, per quanto lei sia gentile e sofisticata, devo declinare il suo invito. L’unico lavoro che mi si addice è la ricerca.-
– Potrei adirarmi, ma non ne vale la pena. Non con te, beninteso. Mi hai fatto venire voglia di presentare un reclamo nelle alte sfere. Mi rendo conto di essere troppo rigorosa. Poi mi sento annoiata. Un po’ di lotta potrebbe farmi tornare l’entusiasmo di gioventù. Ti ringrazio Gogol. Buffo il tuo nome.-
-Me lo ha dato un tipo con gli occhialini che ho incontrato strada facendo. L’ha scelto lui fra tanti, io l’ho accolto di buon grado, fatto più unico che raro per me.-
– Il nostro incontro volge al desio, lascio spazio alla protagonista di tutte le storie. La tua seduta è (stata) comoda?-
– È una panchina un tantino irriverente ma comoda abbastanza per non sprofondare come in certe poltrone pericolose.-
– Non tornare a trovarmi, la prossima volta verrò io. Arrivederci-
Lei proseguì a passi ponderati e meccanici. Ben presto tutto ciò si rivelò l’ennesima illusione, perché scorsi sotto le sue lunghe vesti un binario che correva torno torno il periplo dello stagno. Io c’ero ancora e forse non me ne sono mai andato. Mi rimaneva un acerbo nodo in gola che si sciolse solo quando pensai:…………………………………………………………………………………..
Finale di partita: il Re ed il pedone
I protagonisti sono Hamm, un anziano signore cieco ed incapace di reggersi in piedi, ed il suo servo Clov, che al contrario non è capace di sedersi. Trascinano la loro esistenza in una casetta in riva al mare, nonostante i dialoghi suggeriscano che in realtà all’esterno della casa non esista più nulla, né mare, né sole, né nuvole. I due personaggi, dipendenti l’uno dall’altro, hanno passato anni a litigare e continuano a farlo durante lo svolgimento dell’opera. Clov vorrebbe continuamente andarsene, ma non sembra esserne capace. In scena sono presenti anche i due vecchissimi genitori di Hamm, Nagg e Nell, che sono privi di gambe e vivono dentro due bidoni della spazzatura situati in primo piano a sinistra.
Samuel Beckett (Fonte Wikipedia)
L’amore e il gioco, come ho avuto modo di constatare, sono le più alte forme di apprendimento che la specie umana ha selezionato nel corso della sua breve evoluzione. Circa trecentomila anni sono nulla in confronto alle ere geologiche!
La nostra storia, quindi, si accompagna allo stare in relazione. Senza questo processo le idee non si tramandano, i bambini non maturano, la società non sopravvive nemmeno a se stessa, le comunità si disgregano.
Il gioco, come quello degli scacchi, avviene in un campo astratto. Gli osservatori più prossimi al campo, sono i giocatori che contemporaneamente sono anche attori coinvolti. I dilettanti giocano fino alla fine, i professionisti accettano la disfatta imminente e con un colpo plateale del dito fanno cadere il Re, anzitempo. Perdono, con onore, prima di venire sconfitti dalla partita.
Giocando si capisce come condurre il proprio gioco. Tutti gli schemi, le previsioni, i calcoli e gli artifici mentali non possono sostituire il giocare. Giocare bene è frutto dell’esperienza aquisita, di un pizzico di genio, del caso.
La Storia è infinita, atemporale. Le storie hanno un inizio, uno svolgimento, una fine. Se dall’inizio della storia seguite il flusso della narrazione e l’avvicendarsi degli eventi, giungerete alla fine che sceglierete più vicina al personaggio di cui siete gli autori. Lo scrittore inventa la sua storia, il lettore inventa la sua, mentre la legge.
Ora giochiamo!
Accompagnate Gogol al finale di partita che più si addice al suo personaggio, che, dall’inizio della Storia, ha germinato in voi. L’ abbondanza di puntini sospensivi, che ad un certo punto infastidisce Gogol, fa al caso nostro. Inventate la vostra storia, chiudetela una buona volta, apritene di nuove.
Il finale aperto
Premio di consolazione
Terzo premio: Rivelate un pezzettino di voi stessi al mondo.
Secondo premio: Di che cosa volete diventare autori?
Primo premio: La vostra Storia.
Premio per me: La partecipazione strampalata alla nostra relazione.
Il mio finale
” Due solitudini, alla fine, s’incontrano sempre.”