L’impegno inizia con il riconoscimento della nostra fondamentale fragilità e del carattere effimero del fenomeno umano. Non si lotta mai una volta per tutte. L’azione è un’esigenza permanente, può creare degli irreversibili ma non mette mai fine all’effimero. [M. Benasayag]
Premessa
Mi chiedo come attualmente la psicoterapia possa trovare risposte a fenomeni emergenti nel campo sociale. Se da un lato tali fenomeni appaiono come sintomi di un disagio, dall’altro sono domande che interrogano la mia disciplina sul senso stesso della cura: il senso di alienazione, la dipendenza dai dispositivi tecnologici, la socializzazione virtuale, la scorciatoia di relazioni superficiali aride, la paura del diverso si sono consolidate ulteriormente attraverso il distanziamento sociale imposto dalle recenti misure anti covid-19.
La risonanza emotiva di tale condizione restrittiva ha lasciato sul campo traumi, situazioni relazionali irrisolte, rabbia distruttiva, svariate patologie inquadrabili nello spettro dei disturbi ansiosi, disturbi psicofisiologici, malattie psicosomatiche e altro ancora.
Allora il problema da una prospettiva psicoterapeutica, potrebbe essere posto in questi termini: pur riconoscendo la natura nociva di certi comportamenti, quelle che strada facendo si consolidano come abitudini sono “sdoganate” come un male necessario nella corsa “dissennata” all’evoluzione tecnologica dell’uomo per garantirgli la sopravvivenza.
Per fare un banale esempio: se avete figli adolescenti certamente saprete che lo smartphone è diventato un prolungamento della loro mano, e che i loro occhi affaticati necessitano, sempre più precocemente, di lenti per correggere i difetti di vista dovuti all’esposizione prolungata ai device. Ora devono formarsi in DAD e “andare” a scuola ma gli occhi servono loro tutta la vita!!!
Necessità materiali e relazione di cura
Un tempo tra le scienze umane era annoverata anche l’economia, mentre la psicologia e la psicoterapia sono molto più giovani come discipline. L’economia si occupa delle necessità materiali dell’uomo mentre le discipline psy studiano il comportamento umano.
In particolare la psicoterapia si occupa di un ambito specifico del comportamento: la relazione di cura. Grossolanamente…
Che mediazione è possibile tra le istanze, apparentemente contrapposte, che le due discipline portano in evidenza? La mia proposta è questa: tra benessere e necessità materiali non si può scegliere una delle due, dobbiamo, invece, trovare il modo di integrarle e immetterle in un’unica direzione. Non mi sembra che questo stia accadendo. Ma non ho ricette magiche o definitive a disposizione, mi chiedo: Cui prodest?
La seduzione come bisogno relazionale
Dal latino secum-ducere, cioè “portare dalla propria parte”, il gioco della seduzione è il presupposto da cui ripartire per ricostruire la fiducia nelle relazioni, demolita dall’attuale isolamento sociale e dall’ineluttabile processo alienante la possibilità di creare legami stabili.
Le sfumature della seduzione sono molteplici: dallo sguardo materno che conquista l’amore del bambino al seduttore compulsivo, passando dalla danza rituale del corteggiamento ai processi che più in generale tendono ad influenzare opinioni, credenze, azioni a livello individuale e collettivo.
A questo proposito, per comprendere in base a quali credenze possa nascere una relazione, può essere interessante ricollegarsi ai diversi stili amorosi, come proposto da John A. Lee (leggi su questo anche il mio articolo sulla separazione).
Gli stili amorosi sono delle ideologie, delle credenze che frenano la pulsione strutturatasi nel corso dell’evoluzione umana a stare in gruppo e a formare coppie e sabotano, talvolta, la nostra disposizione all’esplorazione dell’ambiente alla ricerca di un senso di appartenenza.
L’autore suddivide tali credenze in 6 categorie:
- Eros: L’amore passionale (Quando ti vedo, perdo il controllo di me)
- Ludus: L’amore si fa per gioco (Cercasi scopamici disperatamente)
- Storgé: L’amore amicale (Ti voglio bene)
- Mania: L’amore possessivo (Tu sei solo mia)
- Pragma: l’amore logico (Amore dobbiamo pagare le bollette!)
- Agapé: l’amore altruistico e disinteressato (Ti accetto così come sei, Ti amo incondizionatamente)
L’amore è la più alta forma di apprendimento selezionata dall’evoluzione per la nostra specie.
L’uomo tiene con sé i suoi cuccioli più di ogni altro mammifero per trasmettere competenze che verranno impiegate, poi, in società.
Se negli stadi più elevati l’amore è soddisfazione dei desideri e non dei bisogni, quali domande possono approcciare la realtà che stiamo vivendo?
Primariamente una domanda ovvia pone le basi per una costellazione di altre domande.
Come attenuare le conseguenze del distanziamento sociale seguito al covid 19?
Quali percorsi ha intrapreso la seduzione nell’era social? Come approcciare le relazioni attraverso i social network e la mediazione di strumenti tecnologici? Quali le trappole dell’infatuazione per i feticci che appaiono sui social network? Come ritrovare una dimensione intima e profonda nel rapporto con se stessi? Come ricreare alleanze? Come superare la paura di mettersi in gioco scoprendosi e l’insicurezza che ne deriva ? Come trascendere gli scambi strumentali, a favore di una rivitalizzazione del tessuto sociale? Come ritrovare un dialogo inserito in una trama narrativa che consenta di rincontrarci e riscoprire il senso di solidarietà? Come riappropriarsi di quegli affetti che possono evolvere solo attraverso le esperienze evocate dalla presenza con l’altro?
L’altro esiste ancora nel nostro orizzonte?
La cornice filosofico-esistenziale pone il riconoscimento dell’altro come presupposto imprescindibile della relazione umana.
Per incontrare l’altro, d’altronde, diviene fondamentale stare ben radicati nella propria posizione, rinunciando ad atteggiamenti assistenzialistici, moralisti e buonisti.
Il radicamento nel posto che ciascuno occupa nella propria esistenza lascerà affiorare, in seguito ad un lavoro consapevole, il proprio originale punto di vista e il proprio autentico processo creativo.
Come far emergere dunque un nuovo punto di vista? Come scoprire e ricreare le tappe di un processo creativo?
Attraverso il lavoro sul Sè corporeo e l’indagine sul nostro stesso “sentire” che, in un ottica sistemica, prenderanno spazio rispetto alle “esigenze” di un Io, condizionato dall’illusione e dai dualismi mentali.
In linea con quanto detto, mi sembra essenziale trascendere la visione diffusa per la quale l’altro tende ad essere reificato, dicendo “Lui” e “Lei”e infondo intendendo “Esso”.
In questa prospettiva, invece, l’altro diventa un “Tu”, con cui rapportarsi in modo generativo. Dicendo “Tu” intendo evidenziare l’urgenza di riconoscere la natura vivente e soggettiva dell’altro.
Rivolgendoci ad un “Esso”, al contrario, non riconosciamo l’alterità con cui entriamo in relazione, trattandola come un bene di consumo oggettivato e ridotto a mezzo per raggiungere i nostri obiettivi utilitaristici.
L’antidoto contro il veleno utilitaristico
L’utilitarismo è ormai dominante, ma si occupa solo di una dimensione della vita sociale. Seppur necessaria, la dimensione sociale utilitaristica va integrata recuperando la dimensione del dono e della gratuità, in senso metaforico, ma anche pragmatico.
Il legame sociale è sempre stato fondato sullo scambio tra dono e contro-dono, fin dalle civiltà pre-moderne. Il complesso rapporto tra la libertà del donatore e l’obbligo morale del ricevente si svolge ancora nel contesto di un rito in cui si dona sacrificando parte delle proprie ricchezze, rinunciando a parte del proprio possesso.
Una società integralmente razionalista non è più dedita al sacrificio, ma ad un edonismo senza qualità.
Tornare al dono è una forma di pratica per orientare le scelte delle persone, valorizzandone la loro unicità e la loro responsabilità.
“Se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano” [Gui Debord]
Qual’è il ruolo del conflitto nello scenario fin qui delineato?
“La distruzione si trova al centro del meccanismo della crisi, è normale che tale funzione colonizzi gli individui e la loro mente. Sotto questo punto di vista i comportamenti che conducono allo sviluppo della violenza sono la manifestazione concreta della crisi.” [M. Benasayag]
Il filosofo e psicanalista argentino fa l’elogio del conflitto e lo pone in relazione alla violenza di cui siamo spettatori distaccati o attori coinvolti, a seconda di quale lato dello schermo occupiamo.
Egli propone la sua ricetta per oltrepassare questa crisi: moltiplicare le occasioni di conflitto, non identificandolo solo con la lotta, può diventare un processo di apprendimento che tolga la violenza dal ruolo preminente dove tuttora è insediata.
Tutte le professioni d’aiuto in quanto competenti in materia di risoluzione del conflitto sono chiamate ad offire le competenze necessarie ad una trasformazione su di un piano individuale-sociale-comunitario delle relazioni umane.
Lo sguardo medico e i suoi scotomi
Il corpo vissuto è lo scenario dove prende vita il conflitto.
La scienza bio-medica, come l’abbiamo vista in azione negli ultimi due anni, non ha occhi per abbracciare e accogliere in sé tale dimensione della vita. Appropriandosi degli strumenti del paradigma biologico (bios:vita) ha smarrito il senso sociale della malattia e la dimensione relazionale della cura.
Attribuendo al Virus un valore assoluto, ha relegato i corpi dei malati nell’impossibilità di prendersi cura delle relazioni più prossime.
La sconnessione dal corpo sociale operata per evitare che il corpo biologico si ammalasse ha perso di vista la complessità dei sistemi viventi, il cui nutrimento è veicolato dalla comunicazione, digerito attraverso il linguaggio.
La cura ha ammazzato il cavallo. Operazione riuscita, paziente deceduto. (Vox populi, vox dei).
Questi detti sono ciniche metafore che vengono a parlarci del sacrificio di una parte di noi nel sanguinoso combattimento contro il Virus. E se una parte di noi si ammala, ne soffre tutto il sistema mente-corpo.
Si delinea così il campo che la Medicina, qui intesa come cura dell’unità corpo-mente, dovrebbe indagare, per far scomparire magicamente il senso di minaccia in favore di un attesa fiduciosa. Ben inteso: con la magia delle pratiche applicate, non con il disimpegno, aspettando che passi la nottata.
“El camino se hace haciéndo”
Conclusioni
Quando s’interiorizza il conflitto non si cerca più un capro espiatorio nell’ambiente esterno ed Io divento responsabile delle mie scelte.
Siamo nel momento della scelta quando ci curiamo dei nostri vissuti e li connettiamo alla nostra storia, condividendoli con il linguaggio.
Accettandone le contraddizioni, abitando le tensioni tra le polarità, trasformiamo in una sintesi inedita quello che c’era prima e che qui ed ora diviene il nostro cammino, la nostra missione.