Non scagliare la seconda freccia!
Nell’articolo “Che cosa hanno in comune meditazione e psicoterapia?” ho tracciato sinteticamente una demarcazione tra due tipi di meditazione e descritto l’attività dell’io del meditante. Inoltre ho evidenziatoche cosa le pratiche meditative potevano dirci su come si svolge l’attività mentale.
Qui di seguito vi parlerò di come si può trasformare il modo in cui reagiamo alla sofferenza con la meditazione Vipassana.
Origini e significato della meditazione vipassana
Vipassanā” è un termine pali che significa “vedere chiaramente” oppure “guardare dentro”. La parola si compone di “Passana” che significa vedere, cioè percepire, mentre il prefisso “vi” significa attraverso. Si tratta di una delle più antiche tecniche meditative al mondo, derivante dalla tradizione buddista theravada. Dopo la sua illuminazione nel 528 a.C., il Buddha trascorse il resto della sua vita insegnando la via per uscire dalla sofferenza.
L’intuizione che si acquisisce con questa pratica, taglia il velo dell’illusione, donando un tipo di visione che percepisce le singole componenti dell’esperienza separatamente. L’idea della separazione è particolarmente rilevante in questa meditazione, perché l’intuizione funziona come un bisturi mentale, differenziando le verità convenzionali dalle realtà ultime. In altre parole occorre avere la consapevolezza di quello che si fa in ogni momento, cercando di entrare in contatto con tutte le sensazioni che scaturiscono dalla nostra attività mentale.
I precetti della meditazione vipassana
Il principio cardine di questa meditazione è “vedere le cose come sono in realtà”. Ci si concentra principalmente sull’esperienza corporea: dalla postura al respiro fino ad arrivare alle sensazioni più sottili. Con la pratica si acquisisce un’intuizione che dissolve la sequenzialità del pensiero convenzionale per arrivare a percepire la mente e la materia così come sono: impermanenti, insoddisfacenti e impersonali.
Avere una visione chiara dei fenomeni che osservi ti farà apprendere che essi sono pervasi dai tre “segni dell’esistenza”: impermanenza (annica), insoddisfazione (dukkha) e impersonalità (annata).
- Impermanenza: Tutto ciò che nasce, finisce per morire. Il cambiamento costituisce la natura stessa dell’esistenza. Ogni volta che ci aggrappiamo a qualcosa di impermanente soffriamo.
- Insoddisfazione: Tutti i risultati che raggiungiamo possono comunque lasciarci con la sensazione di non aver fatto abbastanza. Il disagio associato al vivere in un corpo e sperimentare la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte rende la nostra esistenza condizionata. Tutto è transitorio.
- Impersonalità: Questo è il segno più strettamente psicologico. L’esperienza soggettiva che facciamo del sè è percepita come se fosse un’entità solida e separata, indipendente. In realtà il sè è un processo fluido che noi reifichiamo (rendiamo una cosa). Quando prestiamo attenzione all’esperienza del momento ci accorgiamo che essa è in perenne movimento.
La pratica costante rende meno potenti quelle forme di attaccamento che generano sofferenza. Man mano che l’attaccamento si stempera, il desiderio e le illusioni vengono abbandonate. Il Buddha identificò questi due fattori, il desiderio sensuale e l’ignoranza, come le più grandi radici della sofferenza.
La meditazione vipassana riguarda il momento presente e prevede il rimanere nel “qui e ora” il più a lungo possibile.
Consiste nell’osservare il corpo (rupa) e la mente (nama) con nuda attenzione. Quest’atteggiamento è fondamentale per capire quando siamo in preda a delle emozioni negative, che possono essere paura, rabbia o momenti di cieca impulsività. Quando ci lasciamo andare a queste sensazioni, il nostro corpo modifica il respiro, e questo è un chiaro indice che qualcosa non va.
Interpretare questa condizione quando il corpo ce ne dà avviso è il pilastro su cui si basa la Vipassana: possiamo apprendere le sensazioni che precedono lo scatenarsi di un’emozione mentre prende il sopravvento sulla nostra mente. Senza subirne il travolgimento, le possiamo ridurre a mere sequenze di fatti.
Vedere attraverso le nostre illusioni
Noi psicoterapeuti abbiamo un compito ingrato: rompere le uova nel paniere. E cioè quello di scostare per brevi attimi il velo delle illusioni che spesso si presentano sottoforma di schemi rigidi con i quali leggiamo la realtà. Il rifiuto dell’esperienza attuale, la negazione della realtà che ci troviamo davanti, il desiderio irrealizzabile di una situazione ideale ne sono esempi.
Case study:
Come SVILUPPARE la concentrazione (samatha)
Il passo fondamentale per intraprendere questa pratica è sviluppare la concentrazione, attraverso una pratica detta Samatha. Questo obiettivo è raggiunto attraverso la consapevolezza della respirazione.
Ora vi propongo una meditazione che potrete sperimentare in privato o facendovi leggere il testo da un amico.
Concentra tutta la tua attenzione, di momento in momento, sul ritmo del tuo respiro. Nota le sottili sensazioni date dal movimento dell’addome che sale e scende. Oppure focalizzati sulla sensazione dell’aria che passa attraverso le narici e tocca le tue labbra, l’aria che entra fresca ed esce tiepida. Cerca di avvertirla più intensamente che puoi.
Mentre ti concentri sul respiro, noterai che altre percezioni e sensazioni continuano ad apparire: suoni, movimenti del corpo, emozioni, ecc. Basta notare questi fenomeni mentre si presentano alla tua consapevolezza, per poi tornare alle sensazioni che accompagnano la respirazione. Tieni l’attenzione sull’oggetto della concentrazione (la respirazione), mentre altri pensieri, ricordi o sensazioni appaiono nel campo semplicemente come “rumore di sottofondo”.
L’oggetto che è al centro della pratica (per esempio il movimento dell’addome) è chiamato “l’oggetto primario”. E un “oggetto secondario” è qualsiasi altra cosa che sorga nel tuo campo di percezione attraverso i cinque sensi, oppure attraverso la mente (pensieri, ricordi, sentimenti). Se un oggetto secondario aggancia la tua attenzione e la allontana, o se fa apparire il desiderio o l’avversione, concentrati sull’oggetto secondario per un momento o due, etichettandolo con una nota mentale neutra, come “pensiero”, “ricordo”, “preoccupazione”, “desiderio”. Questa pratica è spesso chiamata “notazione”.
Una nota mentale identifica un oggetto in generale ma non nei dettagli. Quando un suono ti disturba, ad esempio, etichettalo in modo neutrale come “udito” invece di “auto”,“voci” o “cane che abbaia”. Se si verifica una sensazione spiacevole, annota “dolore” o “sensazione” invece di “mal di schiena”. Quindi riporta gentilmente la tua attenzione all’oggetto primario della meditazione.
In questa fase acquisirai la “concentrazione di accesso”, che ti permetterà di rivolgere totalmente l’attenzione all’oggetto primario della pratica. Osservalo senza attaccamento, lasciando sorgere pensieri e sensazioni che gradualmente recedono sullo sfondo e poi scompaiono spontaneamente. L’etichettatura mentale è un modo per impedirti di essere trascinato via dai pensieri e per vederli oggettivamente. Ascoltare il corpo e conferire un senso di ricerca a questa esplorazione ti può aprire all’esperienza così com’è.
Le due frecce
La psicologia buddista opera un’importante distinzione tra dolore e sofferenza. Mentre il dolore è connaturato all’esistenza umana, la sofferenza risiede nel come ci relazioniamo a questo dolore e alle esperienze che ci accadono.
Il Buddha illustrò questa distinzione chiedendo ai suoi discepoli se avrebbero provato dolore nel caso in cui fossero stati colpiti da una freccia. Naturalmente, gli risposero di si. Egli allora chiese: “E se foste colpiti da una seconda freccia, questo aumenterebbe il dolore?” Loro risposero di nuovo di si.
Un uomo colpito da un dolore è come chi venisse colpito da una freccia. A questo dolore reagisce con lamentazioni, imprecazioni, maledizioni, è imprigionato dall’ostilità. Quando le persone che non conoscono il sentiero provano una sensazione spiacevole si preoccupano, si agitano, piangono, si percuotono il petto, perdono il senso della realtà. In questo modo fanno esperienza di due dolori: quello fisico che è naturale provare e quello mentale, costruito da noi.
Gravati dalla sensazione spiacevole reagiscono con avversione e successivamente cercano rifugio in sensazioni piacevoli. Rimanendo condizionati da un simile atteggiamento gli esseri umani si condannano all’insoddisfazione, all’infelicità e all’ignoranza. Chi è saggio riconosce il dolore e comprende effettivamente che le sensazioni sorgono e muoiono. Non si abbandona alle sensazioni piacevoli come se fossero un anestetico, rimanendo equanime di fronte alla sofferenza.
Conclusioni
In una seduta di psicoterapia si attinge alla saggezza del corpo, confrontandosi con la sofferenza che scaturisce dal nostro atteggiamento nei confronti del dolore. Più il dolore scava in profondità, più c’è spazio per la gioia.