“Che cos’è una linea? La storia di un punto.” [V. Kandinsky]
Il quadro ha la cornice, un disegno no
Non so bene come sia nata l’esigenza di scrivere storie. So che l’urgenza nasce da una pressione interna che spinge fuori, una tensione che si tramuta in espressione. E’ un processo che vedo dispiegarsi davanti a me tutti i giorni quando i pazienti mi chiedono aiuto.
Questa volta avevo bisogno io di aiutarmi: sarà stata la noia di quel pomeriggio in cui ho scritto questo ricordo d’infanzia. Avevo l’esigenza di ricordare dove ho pescato la mia passione nel cambiare le storie degli altri. Era urgente e vitale la pressione che faceva correre le dita sulla tastiera. Proprio così, a volte è questione di vita o di morte, di amore o di odio, di luce o di tenebra.
Scegli un momento da dove cominciare la tua storia: il momento zero e poi nulla è più simile a ciò che c’era prima. Cambi il disegno del destino e riscrivi la tua biografia.
Poi ho coinvolto mio fratello e mio padre nella narrazione dello stesso ricordo ed è nata un’esperienza dalla forma poliedrica. Ognuno di noi dal suo punto di vista alle prese con lo stesso ricordo. Da questo confronto è nato un progetto che ci impegnerà fino a quando la vita metterà la parola fine.
L’incontro di due storie (minimo due)
Ci sono biografie che assomigliano ad un disegno dai tratti netti, marcati a chiaroscuri e che si distingue bene da uno sfondo. Le storie sono gestalt, configurazioni di eventi significativi che mentre vengono lette o narrate portano con sé un senso.
Il senso nasce da un incontro tra il narratore e il lettore, tra il testo del racconto e chi, nel momento in cui legge, lo amplifica in immagini, sensazioni, odori, emozioni, sentimenti e lo fa rivivere dentro di sé.
I vissuti percorrono la storia come fossero le vertebre della spina dorsale e mettono in contatto l’intenzione del narratore con quella del lettore. L’intenzione del narratore non è mai quella di farsi capire, ma di raccontarsi attraverso una storia. Le intenzioni del lettore sono molteplici e forse mai precisamente corrispondenti a quelle del narratore.
Le due storie (minimo due) che nascono da quest’incontro sono come binari paralleli che s’incontrano all’infinito. Le rette sono parallele, i binari no e s’intersecano in scambi che permettono ai treni quantomeno di non deragliare, ma solitamente di arrivare a destinazione.
Le gestalt sono storie, dentro altre storie, dentro La Storia.
Il processo di formazione di una gestalt segue leggi che gli psicologi hanno tentato di formalizzare.
La relazione figura-sfondo è stata indagata nei processi percettivi e, in estrema sintesi, la psicologia della forma ha dedotto da una serie di prove sperimentali che la buona formazione di una gestalt dipende strettamente dal suo sfondo.
“Il vuoto è la forma” si dice in Giappone. Ogni volta che incontro questa frase i miei occhi iniziano a sognare. Ne ho intuito il senso guardando rapito stampe giapponesi.
Ho imparato in un colpo solo cosa distingue la pittura figurativa occidentale e quella orientale. La figura “occidentale” è racchiusa da una linea, quella orientale no, o meglio raramente. Appare evidente un effetto composizione che incastona la figura nello sfondo. Dalla stampa come quella che avete ammirato si percepisce un equilibrio di forze che a volte la fa apparire come una figura tutta intera, a volte l’onda emerge in primo piano in tutta la sua dinamicità, altre volte, se poggio lo sguardo sullo sfondo, posso avvertire una sensazione di quiete. Dove finisce un disegno? Che cosa lo delimita?
La Storia: il disegno della vita si vedrà solo quando sarà completo.
Il percorso di ogni vita si lascia guardare come un disegno che ha senso.
Il progetto di ogni vita traspare dal disegno.
Il protagonista non perde mai di vista il suo proposito, non abbandona mai lo scopo della corsa, anzi lo porta a compimento. I suoi passi si lasciano dietro un disegno che ha l’unità di una figura.
Il suo percorso mescola l’intenzione agli accidenti.
Il significato di un racconto sta proprio aldilà del progetto che l’ha concepito, la figura che compare insieme al disegno.
Il disegno, non dei tratti confusi, ma l’unità di una figura è ciò che la vita si lascia dietro.
La Storia si vede solo quando chi l’ha tracciata con la sua vita, o altri spettatori, mettono la parola Fine.
“Tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi”, scrive Karen Blixen
“La storia”, commenta Hanna Arendt, “rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”
Meglio le giostre!
La prima volta che sono entrato in un reparto avevo sei anni. Mio padre dopo l’ennesimo furente litigio con mia madre aveva preso mio fratello e me e ci aveva portato in ospedale. Allora era tirocinante in psichiatria, carriera che non avrebbe mai intrapreso.
Una volta entrati in reparto andammo subito nella camera dove medici e infermieri, di tanto in tanto, schiacciavano un pisolino. Lui fu accolto con calore da questa umanità bizzarra e anche noi destammo molta curiosità. Dovemmo letteralmente guadagnare l’ingresso della camera, mentre braccia e mani si protendevano verso di noi come in un bosco stregato.
È ancora forte l’odore del tabacco quando ci ripenso.”Dotto’, ma questi sono i figli vostri? Ma che belli criature!” Una voce tra le tante. Era una donna bassina, colla sigaretta in bocca e con una panza tanta. Ciruzzo il pazzo, che conoscevo già da prima, ci benediceva col suo gesto di spruzzare l’acqua con le dita. Credeva di essere Dio, in realtà era un avvocato che aveva perso la testa per una donna bellissima.
Arrivati nella stanza un infermiere ci portò un panino colla Nutella perché non avevamo cenato nella fretta di fuggire da casa mia. Fatto strano una fuga per andare al lavoro, pensavo, mentre condividevo la cena con Luca. Gerardo l’infermiere era una persona dolcissima, rotondo e con un principio di balbuzie che lo rendeva esilarante. Il suo aspetto materno mi ha sempre inquietato. Avrei anche dormito bene quella notte se non fosse stato per l’acqua del rubinetto che perdeva. Anzi no papà ne aveva lasciato scorrere un filino per bere l’acqua fresca. Luca si addormentò quasi subito. Dietro quella porta il mistero: ma che lavoro assurdo faceva papà se per andarci doveva litigare con mamma? Meglio il castello delle streghe o al massimo la casa degli specchi, non credete? Almeno gli zingari non passano tutta la notte svegli a chiedere pillole al posto di dormire.
Notte in psichiatria (e chest è)
All’epoca della mia notte clandestina in ospedale avevo circa sei anni. Mia madre aveva accompagnato me e mio fratello in ospedale, pensando che mio padre si sarebbe liberato di lì a poco, invece era di guardia per quella notte e non avendo la possibilità di avvertirla, ci rassegnammo all’idea di dover passare la notte in ospedale clandestinamente.
Per quanto l’ospedale in genere fosse un luogo poco adatto a trascorrere la notte per due bambini, il reparto dove avremmo passato la notte lo era ancora di più: psichiatria. Ricordo che al nostro arrivo i pazienti si erano assiepati alle grate della cancellata che confinava il reparto, incuriositi dall’insolita presenza: al medico di guardia, infatti era concesso riposarsi in un locale molto essenziale subito fuori dal reparto.
Del primo impatto avuto con gli ospiti del reparto, ricordo lo sguardo spiritato, l’odore di fumo da tabacco e il brusio di sottofondo interrotto da grida lamentose in lontananza. La stanza destinata al nostro ricovero di fortuna era molto spartana: aveva un letto del tutto simile a quelli che c’erano in reparto, una scrivania e una sedia, un lavello con un filo d’acqua che scorreva di continuo con relativo rumore che ci ha accompagnato per tutta la notte ed era illuminato da un neon alquanto rumoroso.
Ricordo di essermi addormentato presto, come spesso mi capitava a quell’età, ma nel cuore della notte mi sono svegliato perché dovevo andare in bagno.
Sicuramente non era il caso di entrare nel blindatissimo reparto di psichiatria per cui mio padre decise che avrei dovuto usare i bagni destinati al pubblico e ovviamente raggiungerli senza essere notato da nessuno.
Fui molto divertito dalla riservatezza del nostro percorso, accovacciandomi in corrispondenza di tutte le finestre che si presentavano sul nostro cammino come fosse una missione di guerra e io un incursore che doveva restare nell’anonimato, ad un certo punto passammo per una strettoia su cui affacciava la porta del centralino.
Una voce proveniente dall’interno invitava ad una sosta “dottò…?”, pensavo che la nostra missione fosse fallita ed eravamo stati scoperti rivolgendo a mio padre uno sguardo interrogativo sul da farsi, lui mi rassicurò facendomi cenno di mantenere il silenzio: dopo una breve conversazione con il centralinista durante la quale non riuscivo a capire l’indifferenza alla mia insolita presenza, venni a sapere che il centralinista era cieco e la sensibilità del suo udito aveva captato il nostro passaggio senza, però, svelare la mia presenza clandestina.
Quella notte in ospedale
Era il 1982; avevo trentasei anni e due figli: Marco, di anni 9 e Luca, di 7. A quell’epoca ero assistente medico, precario, presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Salerno. Svolgevo, a rotazione con dei colleghi, turni di dodici ore, dalle ore 8 alle ore 20 o dalle ore 20 alle ore 8.
Un tardo pomeriggio estivo, verso le ore 19, mia moglie, dopo una accesa discussione con me, decise improvvisamente di andare ad una delle sue lunghissime riunioni socio-politiche. E così io mi ritrovai improvvisamente di fronte ad un bivio: dovevo, di lì a poco, andare in ospedale per un turno notturno; non potevo lasciare i miei figli soli a casa. Pensai di portarli con me.
Ovviamente non era lecito portarsi i figli al lavoro, tanto meno se minorenni ed ancora meno in un reparto di psichiatria. Contavo sul fatto che di notte il primario non c’era e che avevo una buona sintonia con gli infermieri. Perciò sistemai in uno zainetto i loro pigiamini ed alcune improvvisate colazioni e ci recammo in ospedale. Dove, all’ingresso, entrammo inosservati (a quell’ora d’estate, era ancora consentita qualche visita dei parenti ai ricoverati).
Giunti al reparto di psichiatria, presentai i miei figli agli infermieri, motivando la loro presenza per cause di forza maggiore, imprecisate. Gli infermieri, personalmente inclini all’omertà e professionalmente abituati a ben altre stranezze, li accolsero affettuosamente. E così io ed i ragazzi entrammo nella stanza riservata al medico di guardia, cioè a me, dove tra l’altro c’era un letto. Intanto Marco e Luca, sulle prime un po’ perplessi ma poi incuriositi ed eccitati dalla novità (prima volta con papà al lavoro, di notte, nel reparto “dei pazzi”), si sedettero sul letto e cominciarono a “cenare”. Li lasciai nella stanza, dopo avere spiegato loro che non dovevano uscire, che anzi li avrei chiusi dentro a chiave, per evitare pericolose intrusioni.
Andai dagli infermieri per l’abituale aggiornamento sulle condizioni dei pazienti e quindi li lasciai al loro solito chiacchiericcio: i pettegolezzi sul primario, la scelta sempre complessa dei turni delle ferie, il prezzo delle auto usate, il calcio. Tornato nella stanza mia, trovai Marco e Luca che, indossati i pigiamini, stavano dormendo. Quella notte, nel reparto, tutto filò liscio: non arrivò nessun nuovo ricovero (spesso il nuovo “ospite” giungeva irrequieto e confuso); e non avemmo nessuna emergenza tra i ricoverati. Ci fu solo un piccolo, banale, imprevisto. Verso l’alba, Luca si svegliò perché doveva fare pipì. Non volendo usare il bagno del reparto perché temevo l’eventuale ingresso di un paziente, decisi di portarlo nel gabinetto dei visitatori, cioè fuori dal reparto. Per raggiungerlo dovevamo passare davanti al centralino telefonico, presidiato da un operatore quasi cieco ma dotato di un udito finissimo. Raccomandai a Luca di starsene zitto e procedemmo in punta di piedi. Tutto andò bene.
E così, al termine del turno, ce ne tornammo a casa contenti ed orgogliosi: io per avere adempiuto al mio dovere di medico e di padre, Marco e Luca per avere trascorso una notte “nel reparto dei pazzi”.
…e le arance sanguinelle?
“Quando ero piccolo mi arrampicavo sull’arancio del giardino di mia nonna…”
Continuate voi! Ogni vita merita un romanzo.