Le strade asfaltate come cicatrici che congiungono i territori dell’anima
Trovare un pretesto per narrarsi, per raccontare le proprie vicissitudini esistenziali inevitabilmente fa emergere le proprie ferite. Come queste si sono cicatrizzate ci rende quello che siamo.
Lì la pelle s’ispessisce, le cellule si ricombinano e creano percorsi evidenti. Basta passarci il dito sopra e seguirne il percorso irregolare, perché la memoria ci riconsegni la sofferenza che è stata e che il tempo, con le sue intrinseche proprietà terapeutiche, ha solo allontanato.
Trasformare il dolore che accompagnò quelle ferite, immettendole in un processo di cura le riattualizza vestite di una sensibilità rinnovata.
Il caso e la necessità anche qui giocano la loro partita nel contesto dei processi biologici dei viventi.
Diari della bicicletta (1)
Da quando ho deciso di ritornare nel mondo e ho abbandonato il mio comodo scrittoio, porto sempre con me le parole di un eroe del Novecento.
Non che l’abbia letto, l’ho solo spulciato qua e là come si sgranocchiano dei tarallucci all’aperitivo.
Erano in tre sulle strade polverose del Sud America. La poderosa, il giovane eroe e il suo amico.
Strana idea di battezzare gli oggetti, dargli un nome li rende misteriosi, ne duplica la natura già di per sé complicata. Anche noi siamo in tre: il mezzo con le ruote, io e l’amanuense.
Questo è stato il mio lavoro per innumerevoli anni. Rendere le parole degli antichi greci uniche, impreziosirle di miniature, usando lamine d’oro. Mi immergevo nei cieli di lapislazzulo, intingevo le mani nelle terre ed ero semplicemente felice a sacrificare i miei occhi per tramandare i concetti dei sapienti attraverso i secoli. Il sacrificio mi avrebbe reso beato.
Poi un giorno ho guardato un tramonto e ho capito che nessun intruglio avrebbe potuto riprodurne lo splendore morente.
Ho salutato i miei confratelli, ho accarezzato i miei figli in silenzio e nella penombra della biblioteca mi sono messo in viaggio. Ora il mio scrittoio è un pezzo di vetro su cui picchiettano le dita nervosamente. Come fanno i bambini quando appoggiano la fronte al vetro nei giorni di pioggia, lascio un segno. Appanno la carta col fiato caldo, il dito diventa una penna, faccio un cerchio che delimita la mia porzione di mondo, due punti, un arco e mi guardo sorridere. È un bello effimero, come la vita che non ho mai vissuto, abbagliato da una promessa di eternità.
Lo scrittoio non ci stava sul portapacchi, l’ho abbandonato in una scarpata alla prima curva. Alla seconda ho disperso nel vento le mie polverine, rendendo variopinta una nuda roccia. I pennelli e i ceselli li ho piantati nella terra, sperando che ridiventassero alberi.
L’eroe era un medico malato d’asma. Aveva iniziato combattendo i batteri e aveva finito per sconquassare un intero continente. Quando stava per contagiare il mondo con i suoi ideali di uguaglianza, era stato eliminato da un efficace antibiotico. Gli occhi teneri e sognanti da padre paziente, due baffoni da uomo, uccideva ingenuamente la viltà dei potenti e l’ignoranza delle masse. Io non posseggo l’arroganza di queste convinzioni e la sua forza di volontà.
Già è tanto se riesco a rivoluzionare il mio modo di amare!
Per questo sono partito: pedalo per tenere viva la mia sensualità.
Poi mi pongo di fronte all’intreccio di maschile e femminile come fosse un rompicapo e nello sforzo di comprendere, lascio stare. Ci ritorno quando esausto mi disseto ad una fonte e nello specchio d’acqua vedo un insieme. Penso di aver risolto l’enigma ma l’immagine è dissolta dal salto di un ranocchio. Mi rimetto in sella per chilometri, annego nel sudore il desiderio di pensare. Quando i muscoli sono intorpiditi sento il fluire dell’esperienza come la circolazione sanguigna e il battito del cuore. Allora mi arrendo.
L’eroe non si è mai arreso al suo intento asmatico. Si è arreso strategicamente, ha incarnato il suo ideale e ha stampato il suo volto sulle t-shirt di giovani e meno giovani. Se potesse sapere quanto il capitalismo ne ha approfittato del suo volto forse avrebbe smesso di combattere. Oppure no!?
Io mi arrendo solo dopo una salita impegnativa, ma il mio modo d’amare quando scendo dalla bicicletta non è cambiato. Mento quando mi dico che mi lacrimano gli occhi per il vento o un moscerino. Il vento e l’occhio si accoppiano, io e la mia donna no. Mi illudo che sia un’ideale per cui lottare e invece è una sostanza da incontrare prestando ascolto al suo crepitio. Quando accendo il fuoco mentre bivacco sulla montagna lei c’è, quando mi brucio per toccarla non c’è più. Allontano la mano d’istinto. La riavvicino per percepire il tepore e ricompare.
La meraviglia e lo stupore non scompaiono mai! La mia donna è capricciosa, va e viene a suo piacimento. La meraviglia che mi rapisce quando abbraccio il femminile acquieta la mia ribellione. Aspetto un bacio sulla nuca, un eroico ritorno a casa, quando mi fermo alla scrivania. Se ciò non avviene, smetto di scrivere, alzo gli occhi e aspetto ancora.
La conoscenza di sé diventa sapere
L’edificio del sapere si costruisce partendo da grossolane distinzioni, grossi basamenti di pietra che conferiscono solidità e stabilità alla struttura(in PNL si chiamano presupposti).
Prestando attenzione alle differenti caratteristiche alla base di queste distinzioni, man mano che la costruzione procede verso l’alto, esse diventano più raffinate.
L’artigiano sapiente con un lucido lavorio mentale intaglia la pietra e ne prefigura le congiunzioni: il più delle volte in uno schema acquisito e tramandato dall’esperienza. Quando si presentano delle irregolarità la struttura richiede degli accomodamenti. Lui si ritrova a cercare soluzioni estemporanee che non sono comprese nello schema e, giocoforza, mette in opera la creatività.
Diari della bicicletta (2)
Se è un viaggio come si deve perdi qualcosa.
Stamattina non ho ritrovato i miei guanti di morbido vitellino che si erano conformati così bene al manubrio. Pazienza! Li avevo trovati in un altro girovagare: il viaggio se li è ripresi. Erano un’entità da sacrificare al dio dei passaggi. Ermes s’accontenta di poco: virtù olimpica poco nota.
Poi ho perso la borraccia nuova regalata da una vestale della ciclomeccanica, ricolma di menta dell’Appennino e limone dissetanti. É andata via anche lei.
Ho perso la strada tra Càscina e Lavorìa perché i Toscani quando danno indicazioni stradali dicono: ” Un te poi sbaglia’, sempre addritto!” I lor accenti spesso son sdruccioli, non come noi italiani che accentiamo un po’ a caso, imprigionati da militi latini e filosofi greci, dal ruggito del mare o dai multiformi silenzi della montagna.
Mentre, o forse invece, ho il vago sospetto di aver lasciato andare le scarpe da bicicletta con le placchette di metallo a rendere un tutt’uno piede e pedale. O mi preoccupano o mi rendono così sicuro e tranquillo da non preoccuparmi più. Poi cado da fermo e m’infliggo delle profonde ferite narcisistiche. Pervertita ecologia mentale la mia!
E così perdita dopo perdita ti alleggerisci di cose che non avresti detto mai non fossero necessarie. Perdere o lasciare andare? I gesti che accompagnano questi due momenti del pendolo dell’anima si assomigliano. Sotto uno sguardo che si dirige alla superficie il primo termine richiama un singolo movimento, il secondo è un andirivieni, è duplice.
La perdita spesso l’ho subita passivamente, mentre lasciar andare è stato per me un atto intenzionale. Ho un’arancia in mano, la apro e l’arancia va. Cade, come corpo morto cade. Se la lasci andare tu, può darsi che ritorni. É quasi imperativo lasciare andare le persone per quanto tu vi sia legato, innamorato, aggrovigliato, confuso perché se vogliono ritornano… a profumare di agrumeto in primavera.
Questo viaggio, ora che sono tornato a casa, ha assunto le sembianze di un insieme coerente. Lui è il viaggio e non più lo specchio d’acqua che dissolve la sua immagine grazie all’intervento del buffo ranocchio di Bobbio. L’ho odiato intensamente, fino a quando l’increspatura dell’acqua non è ritornata calma e placida. La visione non c’era più, aveva rivelato la sua illusione idrica.
Pedalando tra una rivoluzione ordinata da una pedivella e l’altra, sono rimasto in sella per duecento chilometri…
La mia lieve impronta ambientale è stata un tempo gravosa e gravata insieme da ingombranti di ogni specie. Da questa leggera differenza ho appreso a godermi la perdita di pezzi di me che mi appesantivano da tempo. La meccanica della mia compagna è lineare, la vita di un amore segue leggi indecifrabili. Se hai il coraggio di lasciar andare l’amata, ogni volta, ogni santo giorno, ogni istante della tua vita, ogni respiro, ogni palpito di ciglio, compare la libertà dei suoi gesti apparentemente incoerenti. Ed eccola qui!
Gli addii si danno per contratto sotto la pioggia scrosciante di un primo maggio che si è manifestato inaspettatamente. Arrivo a Pisa, la città con la esse più sonora d’Italia. Alle ultime rotonde, tra una curva e l’altra, la pronuncio ripetutamente in trance da stanchezza e soddisfazione incongruente.
Finalmente il treno traccerà per me una linea dritta come una cicatrice.
“Bella bionda vienimi a prendere alla stazione come fai sempre! Siamo stanchi di aspettare il sol dell’avvenire”.