“L’incontro avviene dove è caduto ogni mezzo”
M.Buber
Ogni tecnica è un trucco se..
Ogni tecnica è un trucco (vedi Tutte le tecniche sono trucchi – parte prima e Tutte le tecniche sono trucchi – parte seconda) se non è intesa come un veicolo che conduce ad un dialogo autentico. Chi sta nella relazione partecipa ad una realtà. Questa partecipazione è tanto più autentica quanto più è immediato il contatto con l’altro. Ciò accade quando siamo coinvolti in una relazione e contemporaneamente preserviamo la consapevolezza dell’esistenza di una distanza.
“Egli è un corpo vivo di fronte a me e ha a che fare con me, come io con lui, solo in modo diverso.” É con questa diversità che ci si confronta nel dialogo.
Non giudicando la diversità di cui l’altro è costituto, se ne prende atto curiosamente e si può scegliere se renderla oggetto del proprio interesse.
Con la scoperta dell’altro si prende atto della presenza di tutti gli altri sulla scena del mondo. È nuovo e imprevisto il modo in cui ognuno vive la sua esistenza.
L’odio è cieco per natura; – ci suggerisce Buber– si può odiare solo un aspetto di un essere. Se quest’essere lo si vede per intero, si possono scoprire di lui aspetti interessanti che ci accomunano tutti. Dove l’amore vede unioni e legami, chi odia scorge separazioni e conflitti.
Seduta 3
L: Mi sento apatica. Né male né bene
T: e cosa vuoi?
L: Ci pensavo mentre venivo qua. Adesso dovrei stare tranquilla. Il lavoro ce l’ho, sto uscendo. Ma non so perché non riesco proprio ad essere contenta. Mi vengono i pensieri negativi e li elimino però poi non sono felice. Se devo spiegare il perché non lo so.
T: Qui vieni per cambiare piccoli aspetti. Trovi un episodio, un segmento piccolo della tua vita con il quale cerchiamo di produrre una scena. Se ti è venuto qualcosa in mente non ti preoccupare della forma, falla brutta.
L: Si mi è venuto in mente un dialogo con Giovanni. Siamo sempre là…
T: Non spiegare nulla, fallo.
L: Ti sono sempre venuta incontro per capire, per perdonarti però adesso che vedi qualche cambiamento…Tu mi hai visto sempre a casa che ti aspetto. Tu che sbagli ed io che sono la mamma che ti dice questo è sbagliato, questo non si fa. Adesso ti sta prendendo male. Io mi ritrovo a giustificarmi con te per cose che sono normali e che tu dovresti capire ancora di più e invece non le capisci e non le accetti.
l: (nella parte di Giovanni) Io non mi fido di te, oppure mi fido di te però mi da fastidio il tuo cambiamento. Perché stai cambiando? Forse sono insicuro, ma non riesco a capire se mi nascondi qualcosa. Mi dai risposte che non accetto e mi arrabbio. Per me sono inutili le spiegazioni che mi dai, se ci ragiono un po’ sono sensate però… Mi sento preso in giro.
L: Se tu capissi che se sto bene io puoi stare meglio anche tu…Vedi quello che vuoi vedere
T: Che cosa senti?
L: Rabbia perché penso che è tutto normale. Prima non era normale, adesso inizia ad essere normale la situazione, e inoltre se io ho altro a cui pensare mi concentro anche meno su di lui. Gli sto meno addosso, riesco a capire che uno fa tardi perché magari si è fermato a fare chiacchiere con un amico. Se lo capisse potrebbe tornare utile anche a lui.
T: Dillo a lui come l’hai detto a me.
L: Stando più fuori, stando anch’io in mezzo alla gente sto mollando la presa. Ti sto lasciando più libero. Mi arrabbio di meno perché non sono concentrata soltanto sui tuoi errori.
l: (nella parte di Giovanni) Io non la vedo così, io vedo soltanto che tu stai cambiando e non riesco a capire perché. Ed è l’unica cosa che vedo, cose positive non ne vedo.
T: Che cosa provi Giovanni? Dillo a Licia.
l: (nella parte di Giovanni rivolto a L): ho paura. Il fatto che tu finora stessi a casa, anche incazzata, che vivessi soltanto per me e Naomi, per la famiglia insomma, mi dava sicurezza. Adesso che dedichi tempo a te stessa…So che ho tante colpe…
T: Di che cosa hai paura Giovanni?
l: (come sopra): Ho paura che tu possa trovare qualcun altro che ti faccia stare meglio di come ti ho fatto stare io.
L: Non è così, perché se io avessi avuto voglia di andare con qualcun altro… ce ne sono stati tanti momenti in cui sarei scappata. Anche sola senza trovare nessun altro. Se non sono scappata è perché mi sono presa le mie responsabilità.
T: Giovanni ti ha detto che ha paura che ti trovi un altro, potresti trovare il modo per rassicurarlo senza rinunciare alla tua libertà?
L: Potrei dire la stessa cosa di te. Il fatto di uscire, di conoscere gente nuova non vuol dire necessariamente che io ho voglia di andare fuori dalla famiglia. Uno può dedicarsi al marito, alla figlia e a se stessa. Fino ad adesso è come se mi fossi addormentata, anestetizzata. Adesso mi sono svegliata e.… non voglio nessun altro.
T: Licia te la permetti questa libertà, di lasciare aperto l’orizzonte senza limitarti per rassicurare lui?
L: Ehm, si. In effetti questo tempo di sonno ha rassicurato anche me, mi ha fatto comodo.
T: Adesso potresti sperimentare qualche alternativa rassicurandolo in modo che tu abbia il tuo spazio.
L: Si
T: E che vuoi fare?
L: Voglio essere libera di scegliere.
T: come? Tra un quarto d’ora esci di qua e…. Che cosa ti stuzzica, che voglia c’hai?
L: niente di che: poter uscire, andarmi a divertire…
T: un desiderio…
L: voglio andare a vedere un concerto con gli amici
T: dove? Con chi? Personaggi, situazioni concrete per nutrire la fantasia.
L: un concerto di musica jazz con gli amici di una volta che non vedo da tanto tempo.
T: Bene. Dillo a lui in modo che sia rassicurato dal fatto che tu esci e vai a divertirti e non fai nulla contro di lui.
L: Io esco mi vado a divertire e non faccio niente di male. Non faccio nulla contro di te.
T: Vai di là. Giovanni sei rassicurato dalle parole di Licia?
l: (nella parte di Giovanni) Si. Il suo tono di voce è cambiato
T: e che cosa provi?
l: (come sopra) Rabbia, perché non mi ascolta.
T: poni l’accento sempre sul rischio e così non riesci a rassicurarlo. Nella coppia può funzionare una certa trasparenza, comunicagli i tuoi bisogni e che cosa senti. Prova di nuovo
L: Ho bisogno di divertirmi e di stare sola con i miei amici. Mi piace stare in compagnia, a casa mi sento sola. Mi sono scocciata di stare sola.
T: E che cosa senti?
L: il groppo in gola che avevo si è sciolto.
T: Hai notato qualcosa di differente da prima nel modo in cui l’hai rassicurato nell’ultimo scambio di battute?
L: Si. Il fatto di parlare dei miei bisogni mi ha tranquillizzato con me stessa, mi ha dato forza e non ero più irritata con lui.
T: Benissimo! Io ho notato un tono di voce differente da prima, più caldo, più avvolgente: anche questo secondo me l’ha rassicurato.
Licia ora si fida di me, ha compreso che posso sostenere il suo dolore e mi consegna in un racconto appassionato la sua storia familiare. Il tono emotivo è quello di una tristezza conciliata senza più rivendicazioni ed io l’ascolto da vicino, l’accompagno in questa discesa facendo poche domande.
Suo padre, operaio metalmeccanico, ha una diagnosi psichiatrica, lei parla di schizofrenia e di depressione in concomitanza di un disturbo organico.
Racconta spaventata di un clima violento che aleggiava in casa e dell’impulsività del padre: “Mangiavamo con la cinta sul tavolo”. Le punizioni erano severe e nonostante ciò la sua adolescenza è stata apertamente ribelle. Era piccola quando il padre ebbe l’incidente in seguito al quale restò in coma per più di una settimana. Passato il periodo di convalescenza non era più lo stesso, s’innamorò di una ragazza poco più grande di Licia dai lunghi capelli biondi. Si comportava come un adolescente al primo amore, le scriveva bigliettini e faceva in modo di frequentarla sfruttando l’amicizia con la figlia. Andavano a mare insieme e il padre non aveva occhi che per la sua amica. “Io sono come mio padre, mi rinchiudo nell’apatia”.
La conflittualità tra il padre e la madre è, ancor oggi, sempre sul punto di esplodere. La mamma era colei che si era presa la responsabilità di amministrare la famiglia, occupata in campagna, e a tessere le relazioni fuori dalle mura domestiche. Intratteneva rapporti anche con la famiglia d’origine del marito che, al contrario, non ne voleva più sapere.
Licia ha raccolto informazioni indagando sul ramo della famiglia paterna che nascondeva molti segreti: storie drammatiche d’incesti e di figlie vendute che le hanno dato la sensazione palpabile di appartenere ad un’umanità degenere. “Era la guerra…” commentavano le zie, le necessità materiali giustificavano moralmente molte azioni in quei tempi. Anche il padre una volta confidò alla madre di essere stato vittima di un abuso sessuale durante l’adolescenza da parte di un cugino. Le propongo l’idea che la pedagogia autoritaria di suo padre e il suo atteggiamento distaccato può avere protetto i figli da qualcosa di più dannoso, come un abuso sessuale.
Ascolto senza prendere distanza la trama che si dipana. Mi identifico con la sua inconsolabile tristezza, provo rabbia per la sua infelicità e mi ribello al mio stesso sentire; mi dico che è meglio che rilassi il corpo per far spazio a ciò che ho paura di non contenere per intero, chiudo gli occhi per immaginare e li riapro solo quando odo un silenzio pacificato. La qualità del suo eloquio è per la prima volta scorrevole, il suo sguardo, ora, è rivolto lontano in un passato che non si è mai permessa di raccontare per intero. Esaurita l’onda emotiva, le chiedo quale sia un suo desiderio inespresso. Risponde come in trance, con gli occhi sbarrati rivolti alla sedia vuota: “Papà andiamo dallo psicologo”.
Questa è una delle ultime sedute. Ho lasciato il timone con la curiosità di chi va per mare senza rotta. Molte volte sono arrivato in un luogo deserto suggestionato dalla paura di non essere in grado di andare avanti. Le domande, però, orientavano la mia esplorazione in quel mondo sordo di ovatta inzuppata di dolore. E più trovavamo risposte alle domande che interpuntavano il racconto, più l’attenzione trovava appigli per i fili di Arianna che ti fanno uscire dai meandri dell’anima per incontrare la persona che hai di fronte.
Il contatto con te stesso è terapeutico nel momento in cui ti rende disponibile a fare esperienza dell’altro andando oltre la tua frontiera, senza perderti. E io ho smarrito i miei confini, ritrovandomi, infine.
Desidero per Licia che diventi più autonoma, che trovi una sua dimensione esistenziale. Come nella “Terra del rimorso” di De Martino l’unica possibilità per alcune donne di esprimere dissenso e la propria corporeità in un contesto culturale prepotentemente maschilista, era farsi scuotere le membra dalla tarantola, così Licia attende un evento esterno che con forza la liberi dalle catene. Il mio intento è quello di mostrarle il gusto della scelta, la gioia che viene da piccoli successi, accompagnandola in territori ignoti sotto la sua guida. É con le sue sole forze che può spezzare le catene, ritrovando in una dimensione eroica la sua dignità di persona.
É calzante la metafora del cane che ha in bocca un osso per descrivere l’invidia. Credendo che la sua immagine riflessa nell’acqua sia quella di un altro cane con un osso più appetitoso del suo, spalanca le fauci e si lancia per afferrarlo, perdendo così quello che ha in bocca. E probabilmente il cane invidioso continuerà a buttarsi contro la sua immagine riflessa, anche se l’osso non ce l’ha più.
Licia ha un carattere incentrato sul sentimento dell’invidia. La rabbia è l’emozione rimossa dell’invidia e sta alla base di un processo di auto frustrazione. Tanto è intensa la percezione del desiderio tanto più la rabbia diviene irritazione persistente, influenza la quotidianità sotto forma di modalità comunicativa incentrata sul proprio bisogno e sull’esibizione del dolore. L’aspettativa di bontà dall’esterno si traduce in un atteggiamento di rinuncia apparente alla competizione: “è questa autodenigrazione che crea il buco nero dal quale emerge la voracità dell’invidia con il suo aggrapparsi, il suo pretendere, il suo mordere, la sua dipendenza…”
Bibliografia
“Il principio dialogico e altri saggi” Martin Buber, Ed. San Paolo, 1993
“Carattere e nevrosi” Claudio Naranjo, Casa Editrice Astrolabio, 1994
“La terra del rimorso” Ernesto De Martino, Il Saggiatore, 1961